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Salerno Economy XII.37 – 27.10.2023

Le eredità “sconnesse” delle varie e multiple emergenze che già sono giunte all’orizzonte del breve termine.

Il disastro bellico e le risposte ansiose della politica

La verità è che siamo rimasti “appesi” alla giostra economica - nazionale e internazionale - che è in grado di generare percorsi, decisioni, scelte, carriere e quanto altro ancora è ritenuto sostanziale per proseguire nella corsa agli interessi degli interessi.
Glocal-politica
Nella marea di veri e falsi problemi
Ma quante Italie ci sono ancora da rappresentare, descrivere, analizzare e proporre all’attenzione generale dei cittadini, o meglio di quanti sono rimasti a riflettere prima di agire, a pensare prima di decidere, a interrogarsi prima di fare scelte possibili all’interno di una catastrofe continua, senza cesure o interruzioni? Perché, ormai, siamo inseriti in questa sequenza ininterrotta di problemi enormemente complicati, complessi, senza un quadro stabile di riferimento, né politico, né sociale, per non parlare di quello economico, che resta, ormai, appeso ad un ciclo internazionale, prim’ancora che nazionale, dominato, principalmente, dalla preoccupazione (fondata) che tutto decada in una crisi ancora più profonda di quella che stiamo vivendo, senza lasciare vie di uscita di nessun genere. E’ questo solo il tratto più diffuso di una sindrome ansiosa, (probabilmente) di origine neoborghese, che si basa su consuete utilità di sistema per “viaggiare” - più o meno - nella stessa favorevole posizione (socio/economica) che fino a poco tempo ha tutelato (più o meno) una serie di utilità (e comodità), per così dire, che hanno retto abbastanza bene i numerosi colpi subiti negli anni dalle popolazioni in varie parti del mondo (avanzato o meno avanzato).
In altre parole, in questo momento si può dire che in Europa si è consolidato il livello (economico) più alto, in grado di garantire il livello di vivibilità ordinaria alla quale ci siamo abituati. La diffusione di un medio benessere si è protratta nel tempo, fino a diventare un sintomo ben percepito della cosiddetta società avanzata, restando uno degli standard attraverso i quali ci piace descriverci e che sicuramente racchiude una parte importante di quello che siamo diventati.
E’ chiaro, quindi, che la crisi generata e approfondita dal conflitto bellico in Ucraina e, poi, sostanziata e aggravata da quanto sta accadendo in Medio Oriente, per non parlare della crisi pandemica che appare più o meno domata, rendono molto più esteso il fenomeno di grave arretramento - economico, sociale, culturale, politico, partitico - con il quale siamo chiamati, invece, a confrontarci per rimettere in moto, soprattutto, la nostra capacità di riprendere in mano le cosiddette questioni urgenti, primarie, per intenderci: esistenziali.
(continua)
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“Le nascite di imprese aumentano via internet, con l’esplosione di iscrizioni rispetto a dieci anni fa (6.427 quest’anno, il 188% in più)”.

La crisi del commercio, non si aprono più negozi

Confesercenti: “Nel 2023 solo 20mila nuove attività, mai così male negli ultimi dieci anni”.
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Missione (quasi) impossibile
“Aprire un negozio, una missione sempre più impossibile. Caro-vita, rallentamento dei consumi e concorrenza della grande distribuzione e del web non accelerano solo le chiusure di imprese nel commercio, ma fanno crollare anche le nuove nascite. Per il 2023 si stima che abbiano tirato su la saracinesca per la prima volta solo poco più di 20mila attività nel comparto, l’8% in meno del 2022 e il numero più basso degli ultimi dieci anni: nel 2013 erano state oltre 44mila, più del doppio”. E’ questa la stima realizzata dall’Osservatorio Confesercenti, “sulla base di elaborazioni dei dati camerali”. Una crisi “che ha falcidiato il tessuto commerciale e che, senza un’inversione di tendenza, è destinata a continuare: secondo le nostre stime, il numero annuale di iscrizioni di imprese nel commercio dovrebbe scendere a poco più di 20mila già quest’anno, per arrivare a circa 11mila nel 2030”.
I comparti.
“Il crollo delle nascite riguarda quasi tutte le tipologie di commercio in sede fissa, con cali particolarmente rilevanti per i negozi di articoli da regalo e per fumatori (-91%, -1.293 nuove aperture rispetto al 2013), per i gestori carburanti (-80%, 441 aperture in meno), per edicole e punti vendita di giornali, riviste e periodici (-79%, pari a -625 aperture), ma anche per i negozi di tessile, abbigliamento e calzature, che nel 2023 dovrebbero registrare solo 2.167 iscrizioni di nuove attività, -3.349 rispetto a dieci anni fa. E con la progressiva riduzione della rete di negozi, anche gli intermediari del commercio perdono pezzi: per il 2023 si prevedono solo 9.306 nuove iscrizioni, quasi la metà delle 18.149 del 2013. Tra le attività del commercio, le nascite di imprese aumentano solo nel commercio via internet, che vede esplodere le iscrizioni rispetto a dieci anni fa (6.427 quest’anno, il 188% in più). Ma è un numero assolutamente insufficiente a compensare il calo di natalità complessiva del settore (-23.320 rispetto al 2013)”.
(Fonte: confesercenti.it/21.10.2023)
(continua)
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Nel luglio di quest’anno si è giunti a 2.858 miliardi e 601 milioni, quasi 88 miliardi in più di un anno prima.

Debito pubblico, tra un record e l’altro e non si ferma mai

Alla fine di agosto è arrivato a 2.841 miliardi (circa). Alla fine del 2018, è risultato pari al 134,8% del Pil, percentuale tra le più alte al mondo.
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Barca in perenne tempesta
Una domanda, ricorrente, risulta sempre più preliminare ad ogni tipo di ragionamento sul contesto economico (e finanziario) di riferimento del Paese-Italia. Ma a quanto ammonta, più o meno, il debito pubblico italiano (nella condizione odierna)? Se prendiamo in considerazione le comunicazioni della Banca d’Italia, stiamo parlando di circa 2.790 miliardi rispetto ai 2.772 dell’inizio del mese di settembre. L’incremento (al 15 settembre 2023) è stato pari a 18 miliardi. Va detto che nel luglio di quest’anno si è giunti a un record, per il debito pubblico italiano, che è arrivato a 2.858 miliardi e 601 milioni, quasi 88 miliardi in più di un anno prima.
La seconda domanda sostanziale è: ma chi sono i creditori del nostro debito pubblico? Banche Centrali - BCE, Bankitalia - banche di credito ordinarie, assicurazioni e fondi di investimento italiani, famiglie e imprese italiane, investitori esteri. Va detto, per entrare nel merito globale, che il Giappone ha il debito pubblico più alto del mondo, pari al 258 per cento del suo Pil. E che il debito pubblico americano totale (federale e regionale) è di oltre 32 mila miliardi di dollari, era di circa 10 mila miliardi durante la crisi finanziaria del 2008. Entro la fine di questo decennio raggiungerà i 50 mila miliardi. Il debito della Cina è tra i più grandi al mondo, ammonta all’equivalente di 51.900 miliardi di dollari, quasi tre volte la dimensione dell’economia cinese quantificata in base al Prodotto interno lordo.
Attraverso il debito pubblico, vale la pena ricordarlo, ogni Stato finanzia il proprio deficit: la differenza tra entrate e uscite. Se le spese annuali dello Stato superano le entrate, è necessario fare conto del debito, che cresce per fronteggiare il deficit. Fin dagli anni ‘80, l’Italia ha generato un debito molto significativo generato da alti tassi di interesse, bassa crescita economica e spesa pubblica elevata. Il rapporto debito/Pil del nostro Paese è uno dei più alti del mondo: alla fine del 2018, il debito pubblico italiano si configurava al 134,8% del Pil.
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Troppo forti i sudamericani: superiori per qualità tecniche al punto di bucare la nostra rete con quattro gol.

Mexico ’70, il mitico Brasile che affondò gli azzurri

La stella di quelle giornate fu, naturalmente, Edson Arantes do Nascimento detto Pelé: il più grande di tutti i tempi. Quando l’Italia perse la finale del nona Coppa del Mondo - “Jules Rimet” - (21 giugno del 1970) vivevamo in un altro pianeta.
Primo gol Pelè Messico 1970 (Sky Sport)
Il primo gol di Pelé nella finale contro l'Italia
(Er.Pa.) - Per capire di quale tipo di calcio stiamo parlando, è importante tenere conto delle parole di Tarcisio Burgnich a proposito del colpo di testa di Pelè (18 minuti dall’inizio della finale del Mondiale di calcio Mexico ’70): “Pensavo fosse un essere umano. Salto e poi, quando la forza di gravità mi richiama a terra, lui è ancora lassù”. La stella di quelle giornate fu, naturalmente, Edson Arantes do Nascimento (Três Corações, 23 ottobre 1940-San Paolo, 29 dicembre 2022) detto Pelé: il più grande di tutti i tempi. E stiamo parlando della finale del nona Coppa del Mondo “Jules Rimet”, 21 giugno del 1970, stadio Azteca di Città del Messico: contro il Brasile, di un altro pianeta, l’Italia ne prese 4 (mettendo in rete un solo gol, quello di Boninsegna). Il primo tempo si rivelò abbastanza equilibrato, gli azzurri, in qualche modo, misero in rete il pareggio di Roberto Boninsegna dopo la rete del Brasile su colpo di testa di Pelé. Ma nel secondo tempo non ci fu nulla da fare: troppo forti i sudamericani: superiori per qualità tecniche al punto di bucare la nostra rete con altri tre gol. La Coppa Rimet fu una loro storia: vincitori per la terza volta.
“Togliamoci il cappello di fronte ai campioni brasiliani - scrisse con lucidità di lettura e acume tattico il grande Gianni Brera - e non recriminiamo più oltre. Più di questo, in effetti, non potevamo attenderci, ed è quindi doveroso ringraziare gli azzurri per quanto ci hanno regalato di emozioni e di soddisfazioni in campo internazionale. Certo non è che abbiano fatto una brillante figura. La parità del primo tempo torna loro molto onorevole, ma nel secondo si sono disfatti. Le crepe della squadra si sono rivelate appieno nella loro scarna evidenza”. Brera, poi, sintetizzava: “Il gol di Boninsegna è stato in verità prodotto del suo tempismo e del suo coraggio più che di un’azione che testimoniasse di una validità tecnica e tattica da parte degli italiani. Nel secondo tempo la situazione del centrocampo italiano si è ancor più aggravata. Non avveniva mai che un filtro purchessia venisse realizzato da De Sisti, Mazzola, Bertini e Domenghini. I brasiliani, palleggiatori sicuri, a volte anche deliziosi, sempre erano in condizione di portare l’attacco fino alla conclusione”.
Questa la più autentica ricostruzione dell’episodio calcistico vero e proprio, ma la finale messicana fu un evento straordinario che riportò l’Italia in un’epopea dove l’entusiasmo abbracciò quel mondo del calcio che, in realtà, da molto tempo, rimaneva abbracciato solo ai calciatori-idoli, ma non riusciva ad esprimere quasi nulla di nuovo.
(continua)
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