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Il Rapporto 2015 della Fondazione Res sulla nuova “geografia” che si è andata delineando negli ultimi anni.
Viesti: “Università di serie A e di serie B”
“Un conto è avere una differenziazione verticale del sistema degli Atenei (cioè fra sedi più dotate e sedi meno dotate) con un certo equilibrio territoriale. Un conto è il disegno che si sta realizzando in Italia: con la serie A tutta concentrata in un triangolo di 200 chilometri di lato con vertici Milano, Bologna e Venezia (e qualche estensione a Torino, Trento, Udine); e la serie B che copre il resto del Paese”.

di Ernesto Pappalardo

Il Rapporto 2015 della Fondazione Res di Palermo (Istituto di Ricerca su Economia e Società in Sicilia, presieduto da Carlo Trigilia) a cura di Gianfranco Viesti – tra gli studiosi più autorevoli delle dinamiche economiche e sociali del Mezzogiorno – restituisce il ritratto di un Sud sempre più distante e lontano (anche sul piano della “infrastrutturazione” universitaria) dal resto d’Italia e d’Europa. Con ampiezza di dati e attraverso un’approfondita analisi dei trend in atto in relazione agli scenari interni ed europei, Viesti delinea una netta frattura tra le Università del Nord e quelle del Sud. “La politica universitaria in corso nel nostro Paese – spiega Viesti- ha posto le basi perché la differenziazione fra due grandi gruppi di Atenei, già con caratteristiche che li distinguono, aumentino sempre più; con una serie A a cui, si badi, non vengono destinate risorse aggiuntive, ma che le sottrae all’altra componente del sistema. Con una serie B che sembra destinata, già nel medio periodo, a strutturarsi su un insieme di Atenei periferici, destinati prevalentemente all’erogazione di una didattica di base, con meno insegnamento avanzato (corsi magistrali e dottorati) e meno attività di ricerca. La cui funzione sarà preparare studenti che poi saranno opportunamente selezionati dagli atenei di serie A per accedere ad una formazione avanzata, in numeri necessariamente limitati”.
Per Viesti il cuore del problema risiede nel fatto che la strada intrapresa porta inesorabilmente all’accrescimento del divario tra le due Italie su un terreno particolarmente rilevante come quello della formazione del capitale umano che risulterà sempre più decisivo dal punto di vista della capacità di crescita autonoma dei territori. “Un conto – continua Viesti- è avere una differenziazione verticaledel sistema degli Atenei (cioè fra sedi più dotate e sedi meno dotate) con un certo equilibrio territoriale. Un conto è il disegno che si sta realizzando in Italia: con laserie A tutta concentrata in un triangolo di 200 chilometri di lato con vertici Milano, Bologna eVenezia (e qualche estensione territoriale a Torino, Trento, Udine); e la serie B che copre il resto del Paese. Sedi universitarie di qualità sono un fattore fondamentale per la competitività territoriale. Non solo per la formazione che erogano ai cittadini: che solo in un mondo virtuale sono tutti perfettamente mobili e dunque del tutto indifferenti fra le sedi di studio. Ma anche per le attività di ricerca e sperimentazione, che rispondono non solo a bisogni e curiosità universali, ma che fanno anche fronte ad esigenze specifiche dei territori; non ultime di analisi, di riflessione, di proposta sui loro cambiamenti. Ancora, per le attività di trasferimento tecnologico”. Ma esistono anche numerosi altre ragioni per provare a contrastare le tendenze in atto. In primo luogo perché le attività universitarie possiedono una loro intrinseca rilevanza economica e culturale, a cominciare dal cosiddetto social engagementdei docenti, che proprio nei contesti relativamente più deboli può determinare impatti maggiori. “L’interazione, anche su base locale, con un sistema della ricerca e dell’Università di qualità – sottolinea Viesti – rappresenta ovunque nel mondo avanzato un fondamentale fattore competitivo dei territori. In Italia, dove le disparità sono cospicue, e le debolezze di una parte importante del Paese persistenti e radicate, bisognerebbe rafforzare in modo particolare le iniziative di formazione avanzata e di ricerca anche, molto, nei territori più deboli, che maggior strada devono compiere nel potenziamento e nella trasformazione strutturale delle proprie economie. Sembra il contrario di quanto sta avvenendo nel nostro Paese. Ben poco, tra l’altro, si può ottenere in questo senso con politiche teoricamente aggiuntive, come quelle dei fondi strutturali europei, se intanto le politiche ordinarie vanno in direzione contraria”. “Sfugge- rimarca ancora Viesti- la logica di destinare ai territori più deboli rilevanti risorse straordinarieper la ricerca quando contemporaneamente si riducono quelle ordinarie: non si ottiene che di aumentare frammentarietà e complessità degli interventi che si fanno. La competitività di un Paese è sempre la somma di quella di tutti i suoi territori. Per il benessere nazionale è razionale puntare ad accrescere in tutte le regioni la capacità di creare impresa, occupazione, reddito; l’alternativa è esacerbare un dualismo, con il suo necessario carico di trasferimenti compensativi. Un carico che diviene sempre più grande economicamente ma sempre meno sostenibile politicamente. Ed è per questo che un sistema dell’Università come quello che si va disegnando non è certamente il più opportuno se si vuole accrescere il benessere complessivo, di lungo termine, dell’Italia”.

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Approfondimenti/La scheda analitica.

(…) “Negli ultimi anni si sono verificati cambiamenti profondi nella secolare storia del sistema universitario italiano. Ne derivano non pochi elementi di criticità, tanto per il presente quanto per il futuro, sotto almeno tre aspetti rilevanti: la dimensione dell’Università italiana; la sua articolazione territoriale; la sua qualità. Il primo aspetto attiene all’ampiezza complessiva del sistema, così come misurata da alcune variabili chiave. Per la prima volta nella sua storia, è diventato significativamente più piccolo. Di circa un quinto. Rispetto al momento di massima dimensione (databile, a seconda delle variabili considerate, fra il 2004 e il 2008), al 2014-15 gli immatricolati si riducono di oltre 66 mila, passando da circa 326 mila a meno di 260 (-20%); i docenti da poco meno di 63 mila a meno di 52 mila (-17%); il personale tecnico amministrativo da 72 mila a 59 mila (-18%); i corsi di studio scendono da 5634 a 4628 (-18%). Il fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO) diminuisce, in termini reali, del 22,5%. L’Italia ha dunque compiuto, nel giro di pochi anni, un disinvestimento molto forte nella sua Università. Si tratta di una trasformazione opposta a quelle in corso in tutti Paesi avanzati (e ancor più negli emergenti) che continuano invece ad accrescere la propria formazione superiore: basti ricordare che mentre il finanziamento pubblico dell’Università in Italia si contraeva del 22%, in Germania cresceva del 23%; anche i Paesi mediterranei più colpiti dalla crisi hanno ridotto molto meno il proprio investimento sull’istruzione superiore. Non è certo solo effetto della crisi: in Italia, la riduzione della spesa e del personale universitario è stata molto maggiore che negli altri comparti dell’intervento pubblico: fra il 2008 e il 2013 i docenti universitari si riducono del 15% circa, il totale del pubblico impiego di meno del 4%. La decrescita avviene per di più a partire da dimensioni notevolmente inferiori. Dei tanti indicatori disponibili, basta ricordarne uno, di estrema importanza; sia, intuitivamente, perché riguarda il futuro del nostro Paese; sia perché è uno degli indicatori di Europa 2020: la percentuali di giovani (30-34 anni) in possesso di laurea rispetto al totale. L’Europa si è data l’obiettivo, al 2020, di avere il 40% di giovani laureati. L’Italia è nel 2014, al 23,9%: questo la colloca all’ultimo posto fra i 28 Stati membri; contemporaneamente l’Italia si è data un obiettivo al 2020 – che è dubbio raggiungerà – pari al 26-27%, che continuerebbe a collocarla all’ultimo posto: alla luce delle dinamiche in corso potrebbe essere superata anche dalla Turchia. La regione con la percentuale maggiore di laureati (30-34 anni), il Lazio (31,6%), si colloca su livelli pari al Portogallo. Quattro regioni italiane, tutte del Mezzogiorno, sono fra le ultime dieci nella graduatorie delle 272 europee; la Sardegna (17,4%) è penultima: la sua percentuale di giovani laureati è superiore solo alla regione bulgara dello Severozàpad, ed è poco più di un terzo rispetto alla Svezia”.

(…) “In particolare dal 2011 sembra essersi determinato un momento storico in cui i tradizionali, profondi, divari di benessere esistenti fra le regioni italiane (che sono rimasti sostanzialmente stabili per circa tre decenni), hanno ricominciato ad aumentare significativamente; come effetto sia delle caratteristiche della crisi economica (che ha particolarmente compresso – a differenza di quanto avvenuto in altri periodi difficili per il Paese – la domanda interna), sia dalle modalità pro-cicliche delle politiche di austerità e delle loro modalità attuative, che si sono rivelate assai asimmetriche territorialmente, con un maggiore aumento della pressione fiscale, e maggiori riduzioni di spesa, corrente e di investimento, nel Mezzogiorno. Contemporaneamente, si rafforzano antichi divari e se ne aprono di nuovi anche nel sistema universitario. E’ bene sempre ricordare che un maggiore sviluppo dell’intero Paese potrà determinarsi solo attraverso una crescita molto maggiore del Mezzogiorno. Ma un più ampio sviluppo e una migliore coesione sociale (ma anche un più elevato livello di virtù civiche) nel Mezzogiorno potranno determinarsi anche e soprattutto attraverso un aumento dei livelli di istruzione superiore di quote importanti della popolazione e attraverso un migliore e più intenso ruolo anche degli atenei nelle attività di ricerca e di trasferimento tecnologico, una maggiore partecipazione del mondo universitario alla vita associata. Dimensione e qualità del sistema universitario del Sud (del Centro-Sud) non sono quindi una questione locale, ma un importante elemento dei processi di crescita dell’intero Paese”.

(…) “Sarebbe inoltre opportuno chiedersi quale sia il modello di Università verso cui si sta orientando l’Italia. Specie rispetto a tre grandi questioni:

a) quanto si ritiene debba essere grande il sistema e quanto debbano essere elevati i processi di istruzione terziaria dei giovani italiani nei prossimi due decenni;

b) quale debba essere la sua articolazione territoriale e rispetto a quali elementi si debba garantire uniformità ovvero accettare diversificazioni;

c) quali siano gli obiettivi di qualità che ci si pone, per tutti gli Atenei del sistema, nella composizione e nei comportamenti sia del corpo docente che degli studenti, nella didattica, nella ricerca, nelle relazioni con il territorio.

Una riflessione capace di guardare al lungo periodo. Quello di cui si discute è il futuro di istituzioni che hanno in alcuni casi una storia plurisecolare (Federico II istituisce a Napoli la prima Università pubblica del mondo nel 1224; l’ateneo catanese nasce nel 1434, quello messinese nel 1559) e che hanno svolto un ruolo fondamentale nella formazione delle classi dirigenti del Paese. Solo in seguito ad una meditata risposta alla domanda d’insieme, ed in particolare a queste grandi questioni, si potranno mutare regole e scelte degli ultimi anni, con un indirizzo molto attento alle loro conseguenze di medio e lungo periodo, e assai meno influenzato da slogan orecchiabili ma privi di effettiva consistenza. Vi sono elementi che attengono in particolare al sistema universitario del Mezzogiorno e per molti versi anche delle regioni del Centro. Qui, la sintesi di quanto detto è che sembrano in azione potenti circoli viziosi, che stanno rendendo molti Atenei sempre più limitati nella loro dimensione, e meno capaci di svolgere un ruolo di promozione dello sviluppo che proprio in quelle aree è più importante; senza al contempo riuscire a superare quegli elementi di minor qualità che ne hanno reso il ruolo più debole. Con dinamiche che in alcune regioni, fra cui spicca in particolare la Sicilia, sono particolarmente accentuate. In questa parte del sistema, per interrompere circoli viziosi, e per superare vecchie e nuove criticità, nuove meditate regole e scelte nazionali sono condizione indispensabile ma forse non sufficiente. L’Italia, quantomeno formalmente, persegue una propria politica di sviluppo regionale parallela alla politica di coesione europea, che si sostanzia nelle allocazioni a valere sulle risorse pluriennali del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC). Mentre la politica di coesione europea, per proprie regole (discutibili) non può avere effetti sensibili sulla situazione delle Università, il Fondo Sviluppo e Coesione potrebbe svolgere un ruolo fondamentale. Parrebbe pienamente giustificato un programma pluriennale di intervento per il rilancio del sistema universitario del Mezzogiorno (ma anche di molte altre sedi del Centro e del Nord). A patto di evitare due errori paralleli ma convergenti che spesso hanno caratterizzato e caratterizzano le politiche di sviluppo regionale in Italia. Il primo è quello di disegnare regole generali – ad esempio nell’allocazione delle risorse o dei docenti – squilibrate a danno delle regioni più deboli del Paese e intervenire con risorse “aggiuntive” (come quelle del FSC) solo per ripristinare un livello simile. Il secondo è quello di garantire agli attori e agli interessi delle aree oggetto di intervento risorse e progetti supplementari, senza stabilire con chiarezza gli incentivi necessari a correggere distorsioni e debolezze che si manifestano, e quindi chiari obiettivi da raggiungere. Il programma non dovrebbe quindi contribuire a compensare squilibri o a garantire comunque flussi di risorse; dovrebbe mirare a contrastare condizioni strutturali, esterne ed interne agli Atenei, che ne condizionano funzionamento e crescita. Potrebbe anche essere organizzato, oltre che su interventi orizzontali, su accordi di “performance” con le diverse sedi, nei quali siano definiti obiettivi da raggiungere, contrattati e definiti fra autorità centrali e Atenei”.

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Il Prof. Gianfranco Viesti
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