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La Strategia europea verso il 2020, la situazione aggiornata al 2016.
Ue green, ma cresce la povertà
Obiettivi ambientali e formativi raggiunti (o quasi). Arrancano gli investimenti in ricerca. Il mercato del lavoro nel medio periodo tende a favorire le donne.

(Alf. Schiav.) – Come va l’Europa? Come stanno gli europei? Benissimo, se amiamo la green economy e i titoli accademici. Malissimo, se ci preoccupano il lavoro e la povertà. Scusate la sintesi a tinte grezze, ma il quadro è quello che emerge da un documento ufficiale. Strategia europea 2020, il punto al 2016.
Eurostat, l’istituto statistico dell’Ue, ci aggiorna periodicamente sullo stato della Strategia europea al 2020. Ci illustra, cioè, lo stadio dei “famosi” obiettivi individuati anni fa per raggiungere “alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale nei Paesi membri” al tramonto del secondo ventennio.
Il 19 luglio, Eurostat ha pubblicato la nuova sintesi: How is the European Union progressing towards its Europe 2020 targets?
La risposta si trova nella prima pagina, in un bel grafico, uno dei tanti lodevoli prodotti di Eurostat, che, non a caso, uniscono originalità e bellezza a efficacia comunicativa. Le 9 voci esterne sono i target. All’interno del quadro, il tratteggio celeste rappresenta la situazione nel 2008 e il tratteggio rosso rappresenta il traguardo del 2020. La linea blu spiega la situazione aggiornata al 2015-2016. A questo punto basta uno sguardo per capire.
Obiettivi ambientali, ok. Obiettivi sociali, ko.
I 4 obiettivi ambientali sono stati superati (gas serra e consumo finale di energia) o quasi raggiunti (consumo lordo di energia e quota di fonti alternative).
Anche i 2 indicatori “culturali” appaiono vicini alla meta: sono aumentate le lauree e la formazione giovanile.
La situazione è invece molto arretrata per gli investimenti in ricerca (R&D).
Il tasso di occupazione ha fatto pochi passi avanti rispetto al 2008. Il rischio di povertà è addirittura aumentato!
Questa fotografia nitida stimola già qualche valutazione. Per esempio, l’Europa premia le grandi correnti di business (compresa la formazione). Invece sembra ancora incoerente l’asserito stretto rapporto fra educazione formale (lauree, attestati) e posti di lavoro.
Lauree e formazione, progressione impetuosa.
Lo schema di pagina 2 ci offre alcune conferme.
Fra il 2008 e il 2016, i laureati sono aumentati di 8 punti percentuali (da 31,1% a 39,1%) e la dispersione formativa giovanile è diminuita di 4 (da 14,7% a 10,7%). Entrambi gli indicatori risultano in progressione positiva, senza differenze di genere, anche se, in assoluto, le donne si confermano più propense alla laurea e ai titoli.
Alla grossa, dunque, la condizione educativa è migliorata di 12 punti percentuali nel medio periodo considerato.
Ma il tasso di occupazione è da sboom.
Vediamo l’occupazione. Nel 2008 il tasso era 70,3%, nel 2016 si è attestato a 71,1%: registriamo una crescita minuscola (0,8 punti), peraltro realizzata nell’ultimo anno considerato. Come tendenza generale il mercato sta premiando le donne (+2,5 punti) senza soluzione di continuità, mentre la quota maschile diminuisce (-0,9), pur oscillando e restando maggioritaria: 76,9% contro 65,3%.
Maschi e femmine si avvicinano.
Tuttavia questa forbice – 76,9% maschile / 65,3% femminile – è forse più stretta di quanto appaia. I dati sull’occupazione riguardano infatti genericamente le persone dai 20 ai 64 anni. Però le ragazze che frequentano l’università – e sono più dei maschi, come abbiamo visto e sappiamo – cominceranno la vera ricerca di lavoro intorno ai 22/23 anni, se non oltre. Considerare d’ufficio non-occupate tutte le ventenni può essere ingiusto, sia per i sacrifici delle famiglie sia per l’impegno profuso dalle studenti (questa non è una papera: studente è una parola neutra, preferibile a studentessa, residuo di stagioni e costumi sociali distanti nel tempo). Già che ci troviamo in argomento, sarebbe utile considerare anche le reali articolazioni dell’età pensionabile.
Se davvero esiste, la distorsione statistica non rende giustizia al ruolo attivo delle donne nel mondo del lavoro, almeno da sessant’anni a questa parte. E se davvero le statistiche sono un po’ lazzarone, sarebbe interessante sapere perché le usano le classi dirigenti europee.
Gestire la povertà, siamo a 119 milioni.
In ogni caso, tornando ai dati ufficiali, davvero mortificante è il totale delle persone esposte a povertà ed esclusione sociale: quasi 119 milioni, il 23,7% della popolazione residente nei 28 Paesi dell’Ue (è scritto nella nota di pagina 2). Così il nostro continente rischia di produrre nuovamente sottoproletariato, un bacino che le strategie politiche avviate nel secondo dopoguerra – debellare la povertà, non gestirla – avevano quasi prosciugato, fra tante contraddizioni, ma con effetti benefici per l’intera società.
E oggi? Oltre i proclami bombastici, i ministri e le ministre di Bruxelles e delle capitali europee pensano mai al giudizio della storia?

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La crescita non sempre vince la povertą
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