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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Permane uno scenario ostile alla “costruzione” di partenariati non di facciata, ma efficacemente orientati verso obiettivi condivisi.
Se mancano le “reti” virtuose
Il punto debole resta la scarsa capacità di mettere in piedi meccanismi positivi di relazionalità sociale. Prevalgono ancora fortemente le “rendite” di posizione professionale e l’intermediazione della politica.

E’ sempre molto difficile riuscire ad attivare percorsi di “dialogo” dal basso. Organizzare, cioè, “reti collaborative” in grado di produrre interazioni efficaci tra i diversi “pezzi” che compongono i sistemi economici e produttivi locali. E’ un’operazione complessa che – soprattutto nei territori in ritardo di sviluppo – si scontra con una serie di rendite di posizione di vario tipo: da quelle “tipiche” che si annidano negli spazi pubblici (il potere di interdizione o di intermediazione della macchina della Pubblica Amministrazione anche indipendentemente dagli input della politica, che, comunque, fa sentire tutto il suo peso); a quelle in ambito privato (che affondano le radici nella difesa ad oltranza della “siepe” oltre la quale c’è sempre un competitor che potrebbe inficiare volumi e valenze dei fatturati faticosamente conquistati). Siamo in presenza, quindi, di uno scenario ostile alla “costruzione” di partenariati non di facciata, ma orientati decisamente verso obiettivi condivisi, senza stabilire in maniera predeterminata chi e come si “approprierà” della paternità e gestirà il progetto/iniziativa; chi e come si “gioverà” in termini di consenso/relazioni o – addirittura – di mediaticità di quanto si riuscirà a fare (perché, ovviamente, quello che non si farà non interesserà a nessuno renderlo noto). Che cosa c’entra tutto questo con la scarsa capacità di interazione tra circuito della formazione e delle professioni con il tessuto delle imprese? C’entra eccome. Perché è ancora prevalente l’approccio non di sistema, ma personalistico (politicamente, imprenditorialmente, professionalmente) in base ad una serie di valutazioni che si poggiano sulla convinzione – peraltro, purtroppo, quasi sempre fondata – che i criteri decisionali (maggiormente nel pubblico, ma anche, sebbene con qualche accortezza in più, nel privato) non siano determinati da valori come il merito, la competenza, la capacità di visione etc etc etc. E, allora, si assiste ad uno “scollamento” generale tra offerta – di profili, competenze e, soprattutto, di talenti (giovani o meno giovani) – e domanda, al punto che esperienze lavorative che potrebbero tranquillamente concretizzarsi qui da noi (arricchendo reciprocamente il bagaglio di Mpmi locali e giovani brillantemente laureati della provincia di Salerno), si realizzano, invece, a migliaia di chilometri di distanza. Certo, in molti casi si tratta di una scelta precisa: ampliare il bagaglio delle proprie conoscenze (non solo professionali) è in ogni caso una buona modalità per crescere. Ma in larghissima maggioranza è una decisione obbligata: diventa indispensabile partire per cercare una collocazione adeguata (e dignitosamente retribuita) al di fuori della Campania (e del Sud). Non è detto che l’esito finale sia da incorniciare, ma, certamente, il tentativo – e le famiglie ne sono sempre più convinte – va comunque fatto (quando le condizioni economiche lo consentono).
Che cosa si può fare, allora, per offrire opportunità pratiche – per esempio – a giovani professionisti in cerca di prospettive di inserimento? Dal basso, operativamente, concretamente? Magari provare ad interfacciare aziende della filiera del legno e della casa con ingegneri, architetti e designer, come nel caso di Confindustria Salerno (vedi intervista in questo stesso numero della newsletter diwww.salernoeconomy.it del 24.06.2016) che ha lanciato un concorso di progetto molto focalizzato sulle competenze specifiche richieste. Esperimento interessante in un territorio dove resta critico – sebbene in miglioramento – il rapporto tra scuola, Università e imprese; dove il trasferimento di innovazione di processo e di prodotto fa notizia più per la rarità dell’evento singolo, che per la diffusione di onde omogenee di relazioni (come dovrebbe/potrebbe accadere).
Eppure, i fermenti positivi non mancano. Da tempo gli indicatori di Unioncamere segnalano l’apertura degli under 35 salernitani ad esperienze di auto/imprenditorialità; all’e/commerce (con numeri assoluti da primi della classe nel segmento del commercio al dettaglio); alle start up innovative. E le stesse aziende hanno acquisito (molto più di quanto sia mediaticamente percepito) una forte sensibilità “green”.
E’ evidente, quindi, che il punto debole resta la scarsa capacità di mettere in piedi meccanismi virtuosi di relazionalità sociale: le famose “reti” che sono i pilastri – in altre regioni del Paese – sui quali è stata costruita una capillare “mappa” delle opportunità della quale hanno tratto giovamento sia il pubblico che il privato. E’ un ritardo di tipo culturale, senz’altro, quello che continua a materializzarsi al Sud, ma occorre prendere atto una volta di più che le responsabilità sono ampiamente diffuse. E – al momento – per la verità non si intravedono grandi dinamiche di cambiamento.
ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it @PappalardoE

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