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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Nonostante le potenzialità ed i margini di crescita inespressi, il settore primario continua a scontare ritardi nell’impostazione di una strategia di sviluppo.
“Parenti poveri” soli e senza tutele
Il comparto agricolo rappresenta una delle maggiori risorse per il rilancio del sistema economico e produttivo soprattutto nel Mezzogiorno, ma non è ancora valorizzato come accade in altri Paesi competitor dell’Italia.

La newsletter del venerdì di questa settimana (online dall’8 aprile) è quasi per intero dedicata all’agricoltura ed ad comparto zootecnico. Approfondimenti sulle problematiche legate allo scenario del mercato del latte dopo l’abolizione delle quote Ue; sulla scarsa efficacia delle azioni di tutela delle eccellenze del Made in Italy (olio d’oliva e pomodoro San Marzano); fino alle trasformazioni in atto nel mondo delle imprese del settore primario ormai sempre più orientate ad entrare anche nei circuiti dell’accoglienza di visitatori attraverso gli agriturismi. Il quadro che emerge è molto chiaro: il comparto agricolo non è ancora realmente considerato la grande risorsa del sistema produttivo italiano. Resta a tutti gli effetti il “parente povero” e, sebbene la percezione diffusa – basta dare uno sguardo a numerosi indicatori per rendersi conto di come lo stesso universo giovanile si rapporti all’imprenditorialità agricola – sia in fase di positiva evoluzione, non siamo giunti al punto nodale: ridisegnare gli orizzonti di crescita di tantissime comunità locali mettendo al centro dell’attenzione le varie filiere che si appoggiano al valore della terra e delle sue molteplici valenze dinamiche. Eppure, ci sarebbe molto lavoro da fare per costruire quelle che il Censis – in un documento presentato ad “Expo 2015” – ha definito “filiere asimmetriche”, evidenziando come tutti i circuiti che ruotano intorno al “food” sono quelli che appaiono più adatti a creare nuove occasioni di sviluppo con significative ricadute occupazionali, oltre che importanti spinte all’auto/imprenditorialità o alla rigenerazione della titolarità e del management delle aziende. L’intreccio tra territorio, eccellenze alimentari e attrazione di nuove e variegate tipologie di turismi (privilegiando l’offerta “taylor made” in base ad un’utenza sempre più esigente ed attenta all’offerta) dovrebbe confermarsi un punto di riferimento nella messa a punto delle progettualità da parte del pubblico. Ma continua a latitare l’ascolto costruttivo del privato (da parte del pubblico) e la capacità di realizzare una programmazione di medio e lungo termine (del pubblico), svincolando finalmente le Istituzioni (invase dalla politica) dalla ricerca spasmodica del consenso ad uso e consumo delle scadenze elettorali.
E’ in questo quadro sinteticamente e parzialmente descritto che si materializzano veri e propri “assalti” ai giacimenti dell’agroalimentare “Made in Italy” come l’olio d’oliva o il pomodoro “San Marzano”, solo per fare due esempi recentemente oggetto di provvedimenti in sede Ue davvero difficili da comprendere da vari punti di vista.
E non si può non evidenziare lo scempio che va consolidandosi nel segmento della produzione del latte dopo l’abolizione delle quote. Uno scempio – tra l’altro – previsto con largo anticipo dagli operatori e dagli addetti ai lavori. Le conseguenze si stanno rivelando devastanti: drastica riduzione del numero delle stalle; consistente abbassamento del numero di addetti; invasione di latte proveniente dall’estero con scadimento degli standard qualitativi; progressivo abbandono di porzioni di territorio non più necessario per il mantenimento degli animali da mungitura. Insomma, un disastro che è anche difficile raccontare dal punto di vista mediatico.
Come è facile constatare, i fronti aperti sono davvero molti. Da un lato gli scarsi risultati in termini di tutela sui mercati internazionali del “Made in Italy” che produce fatturati importanti; dall’altro la continua depauperazione di giacimenti agricoli ed agroalimentari. Con l’aggiunta di una contraddizione: la diagnosi dei “mali” da curare è molto chiara. Gli strumenti individuati ci sono pure. Le risorse – soprattutto quelle di fonte europea – non sono affatto poche. Ma alla prova pratica dell’efficienza amministrativa tutto si arena o rallenta. E, poi, bisogna inevitabilmente aggiungere la scarsa “propensione” imprenditoriale all’aggregazione e alla ricerca di forme di collaborazione indispensabili per reggere l’urto della concorrenza di Paesi che possono contare sulla quantità più che sulla qualità. La frammentazione del tessuto produttivo è la premessa di uno scarso potere contrattuale con i canali della grande distribuzione nazionale ed internazionale. Ed i passaggi troppo numerosi del prodotto dal campo alla tavola moltiplicano le diseconomie che ricadono principalmente sull’agricoltore.
In tale contesto i marchi di territorio – su base volontaria – già sperimentati con successo in altre zone d’Italia, assumono i connotati dell’eccezione virtuosa, invece di rappresentare la regola di base per valorizzare al meglio lo straordinario patrimonio territoriale soprattutto del Mezzogiorno.
ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it @PappalardoE

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