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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Le dinamiche economiche continuano a penalizzare pesantemente le regioni meridionali
Oltre i numeri, la grave crisi della classe dirigente

A leggere il consueto rapporto che Confindustria e Srm dedicano periodicamente all’economia del Mezzogiorno c’è da stare davvero poco allegri. Lo stato di salute del sistema produttivo delle regioni del Sud – ed in particolare della Campania – è molto preoccupante. Si potrebbero citare montagne di dati che convergono su un punto ben chiaro: la crisi ha picchiato molto duro sulle imprese, al punto che oggi siamo di fronte ad un paesaggio industriale profondamente mutato a causa di una serie di fattori ormai preminenti: “ridimensionamento della struttura imprenditoriale, perdita di occupati, ridotta capacità di produrre, ripresa dell’emigrazione con conseguente invecchiamento della popolazione, peggioramento della qualità della vita nel suo complesso”.
E’ evidente, però, che bisogna soprattutto uscire dall’ottica di “cavalcare” la crisi per costruire “consenso” a tutti i livelli: da quello eminentemente locale a quello apicale (centrale ed europeo). La vera emergenza rimane (non solo al Sud, per la verità) la qualità media delle classi dirigenti: una dimensione di mediocrità e di inadeguatezza che travalica la politica ed accomuna – con le dovute, ma, di fatto, poche e depotenziate eccezioni – larga parte di tutte le forme di rappresentanza. Manca ancora (dopo anni di crisi gravissima) la piena consapevolezza dell’urgenza (per evitare il tracollo che mette a rischio la stessa coesione sociale) di accantonare modelli e schematismi del passato. Insomma, siamo, purtroppo, sempre pienamente immersi nei particolarismi e nei micro-leaderismi di piccolo cabotaggio che vanno a braccetto con mali quasi inestirpabili: la resistenza di pseudo-notabilati si incrocia e fa sistema con l’eredità di clientele che si tengono in piedi con le rendite di posizione derivanti dalla vecchia (ma sempre attiva) intermediazione politica sulla distribuzione delle risorse pubbliche. Ecco perché il cambiamento stenta a prendere piede in tante aree del Mezzogiorno e non ha ancora la forza di squarciare la cappa di immobilismo così deleteria per le imprese sane ed innovative costrette ad una solitudine spesso esiziale.
Il punto, però, adesso non è piangersi addosso, ma iniziare a fare le cose che si devono fare per provare ad invertire una tendenza semplicemente distruttiva. Che cosa fare? Come individuare la rotta per salvare il salvabile? Gli analisti di Confindustria e Srm sottolineano principalmente la “necessità di mantenere il Mezzogiorno agganciato alle dinamiche nazionali”, tenendo conto che – come proprio la crisi ha dimostrato – “il Mezzogiorno non è più immune dagli shock esterni ed è parte integrante dell’economia del Paese”. E’ indispensabile, quindi, “realizzare le riforme strutturali in modo da ridurre quanto più è possibile i costi (economici e non) a cui sono soggette le imprese italiane e quelle meridionali”. Insomma la riduzione del cuneo fiscale, l’abbattimento del costo dell’energia, il pagamento dei debiti delle P.A. verso le imprese, l’efficientamento della macchina amministrativa sono le pre-condizioni di base che possono consentire a tutta la base produttiva del Paese – e a maggior ragione a quella parte d’Italia che vive in condizioni di svantaggio competitivo – di iniziare a guardare al confronto con i competitor esteri con più motivi di ottimismo. In questo contesto si inserisce il grave problema (che pesa come un macigno sulle prospettive di ripresa nel Mezzogiorno) legato all’urgenza di riattivare gli investimenti pubblici e privati. Anche in questo caso la soluzione c’è ed è a portata di mano: l’utilizzo dei fondi europei (e di quelli nazionali per la coesione) con tassi qualitativi e quantitativi adeguati alle proporzioni del fabbisogno alimentato dagli anni della crisi. Proprio per queste motivazioni l’accelerazione della spesa (sia dei fondi residui del ciclo 2007-2013 che di quelli della nuova programmazione 2014-2020) diventa una delle azioni sostanziali che devono compiere le amministrazioni centrali e regionali. Anche perché gli ambiti di intervento prioritari sono da tempo stati individuati: competitività del tessuto produttivo, apertura internazionale e capacità innovativa delle imprese, miglioramento della dotazione infrastrutturale e della qualità dei servizi, sostegno al percorso di miglioramento dell’istruzione e delle competenze dei cittadini, recupero e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale del Sud.
Tutto molto chiaro (da anni). Ma è “legittimo” dubitare che in tempi compatibili assisteremo all’attuazione di questi interventi. Lo evidenziano decenni di inconsistenza politica ed amministrativa (e non solo). E questo non è pessimismo di maniera.
ERNESTO PAPPALARDO
direttore@salernoeconomy.it

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