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Effetto Prisma. La nuova rubrica di SalernoEconomy dedicata all’analisi delle dinamiche di crescita rintracciabili nei territori del Mezzogiorno.
Modelli di sviluppo e lavoro creato dal basso
La persistente difficoltà dei settori tradizionali riesce a spiegare il trend di precarizzazione in atto. Bisogna interrogarsi se non si stia palesando una vera e propria “ristrutturazione” di media e lunga durata del profilo inerente al sistema economico e produttivo di vaste aree del Sud, tra le quali rientra, senza dubbio, la Campania.

di Maria Teresa Cuomo* e Ernesto Pappalardo

Secondo le più recenti rilevazioni ed a fronte di una progressiva decelerazione del ciclo produttivo internazionale, l’economia italiana vive una preoccupante fase di arresto, determinata dalla contrazione degli investimenti e dei principali parametri economici (Istat, 2018), per giunta accompagnata da un più generale abbassamento del livello occupazionale (-0,6%). Il dato del terzo trimestre 2018, infatti, raffrontato allo stesso periodo del 2017, mette in luce una riduzione del processo di crescita del mercato del lavoro, che si ferma ad un esile +0,8% a livello nazionale e ad un ancor più debole +0,3% nel Mezzogiorno.

E la Campania? Molto più seria appare la situazione della nostra regione che, nel medesimo intervallo temporale, registra una frenata ancor più brusca, che si traduce addirittura in un valore negativo del mercato occupazionale, pari al -3,2% (SRM-Confindustria 2018), corrispondente ad una perdita di ben 95.591 lavoratori. In aggiunta, in questo «scenario pericoloso» restiamo pressoché isolati (ad eccezione di Abruzzo e Basilicata, unici bad perfomer), rendendo alquanto accidentato il percorso di risalita che conduce al ripristino dello status quo ante-crisi. In tal senso, l’interrogativo da porsi, allora, è da riferire ad una mera congiuntura sfavorevole o, piuttosto, ad un sistema produttivo − al netto di poche realtà imprenditoriali più illuminate − meno «responsive» al cambiamento?

Ad evidenza, allora, condurre un ragionamento su statistiche tendenziali e di breve periodo può risultare rischioso, necessitando, quindi, di una lettura congiunta con le dinamiche dei settori produttivi – sotto il profilo del contributo occupazionale ed in chiave longitudinale – quale valido strumento di orientamento nell’universo del lavoro regionale e provinciale. Seguendo tale prospettiva, la Campania presenta un significativo spostamento della forza-lavoro: commercio-alberghi e ristoranti (+0,5%) e le altre attività di servizi (+3,3%) risultano gli unici segmenti produttivi contrassegnati dal segno positivo nel decennio della depressione economica. Nonostante i blandi segni di ripresa regionale, invece, i cali nell’industria (-1,3%) e nell’edilizia (-2,2% – Banca d’Italia, 2018), confermano la gracilità della manifattura e delle costruzioni a livello italiano, così come la flessione del settore primario regionale (-0,1%), benché in controtendenza con il dato nazionale, con un +0,1% (Istat, 2018), condiviso ad esempio con la provincia salernitana.

Invero, la persistente difficoltà dei settori tradizionali – manifattura e edilizia – riesce a spiegare il trend di precarizzazione del lavoro in atto, ovvero del crollo generale delle attività indipendenti (Inps, 2018). In questa direzione, le maggiori opportunità di impiego si configurano proprio nei comparti a ciclo di vita ridotto, mostrando però solo una flebile stabilità proprio per la presenza di iniziative produttive a maggiore dinamismo e ciclicità, ma anche a più elevato impatto di rischiosità.

Bisogna, quindi, interrogarsi se non si stia palesando una vera e propria “ristrutturazione” di media e lunga durata del profilo inerente al sistema economico e produttivo di vaste aree del Sud – tra le quali, senza dubbio la Campania –  che, proprio a causa della lunga crisi dei settori “classici” (manifattura e edilizia in primis), ha generato nuove e non ancora del tutto esplorate (in termini di potenziale effettivo) filiere. Il processo di “contaminatio” del tutto evidente – per esempio – tra primario e turismo (o, per meglio dire, turismi) ne è un prototipo base, ma non mancano altri esperimenti significativi ricadenti nell’ambito dei servizi alle imprese ad alto tasso di innovazione tecnologica (la più autentica forma di rivoluzione digitale in atto nel segmento delle micro e piccole imprese).

Il punto vero, però, è un altro. Siamo sicuri che il modello di sviluppo in base al quale si mettono in moto (con una tempistica assolutamente lunga e dannosa) progettazioni/finanziamenti di parte pubblica sia coerente con tutto ciò che accade rigorosamente dal basso? Siamo certi, insomma, che gli ibridi fertili produttivi e vincenti – non solo per ricavi, ma anche (se non soprattutto) per valorizzazione delle competenze cosiddette trasversali – non meritino maggiore attenzione e che non possano/debbano essere accompagnati e sostenuti in maniera più “coerente” con gli esiti di percorsi imprenditoriali (ed auto-imprenditoriali) per certi aspetti paradigmatici del contesto nel quale ci stiamo muovendo dopo la lunga fase recessiva?

Se il tema centrale è e resta la creazione di posti di lavoro non precari, è forse arrivato il momento di progettare modelli di sviluppo più flessibili e più aperti alle istanze di crescita che provengono direttamente dai territori.

*(Er.Pa.) – Maria Teresa Cuomo (docente di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università degli Studi di Salerno e presso il Dipartimento di Scienze Economico-Aziendali e Diritto per l’Economia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca) inizia a partire da questo numero della newsletter la collaborazione con SalernoEconomy con la rubrica “Effetto prisma”. Nel ringraziarLa per il contributo di analisi e di proposta che offrirà ai nostri lettori, Le auguriamo buon lavoro.

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