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Gioacchino Murat, re di Napoli, non per grazia divina e volontà della nazione, ma per ordine di suo cognato Napoleone. A parte questo piccolo dettaglio, Murat era davvero in gamba, valoroso come i cavalieri di una volta (senza macchia e senza paura), un cuore intrepido che mise a disposizione del suo “mentore”. Tutto questo idillio durò fino alla Campagna di Russia del 1812. Murat seguì l’Imperatore assieme a circa 700 mila soldati della Grande Armée fino alla città di Mosca, che trovarono bruciata dai cosacchi dello Zar. Il tremendo ritorno, o meglio la fuga dal territorio Russo, costò cara all’esercito francese, che riuscì a riparare in Francia con meno di centomila uomini. Probabilmente fu a questo punto che la stella di Napoleone si spense e con essa la fedeltà e la fiducia del re di Napoli. Quello che forse Murat non aveva considerato era che lui era sì valoroso, ma la possente presenza del cognato faceva esistere il suo regno. Pensò che prendendo le distanze, o meglio rinnegando l’imperatore, salvasse il reame partenopeo e, per questo, intavolò dei trattati di pace con l’Austria e, addirittura, il giorno 11 gennaio 1814 firmò un trattato di alleanza con gli eterni nemici di Bonaparte, gli austriaci. In effetti, la scelta di Murat era dettata dal fine di salvaguardare il proprio regno, scelta che però non era supportata da una sua consistenza di “forza”. Con il susseguirsi degli eventi, l’11 aprile dello stesso anno, con i trattati di Fontainebleau, Napoleone, che nel frattempo aveva abdicato, venne relegato sull’isola d’Elba. Nel raggiungere l’isola l’imperatore portava nel cuore tante stilettate, tra cui quella di Murat e solo di quella non si riusciva a capacitare. Per molti mesi il re di Napoli dovette vivere nella preoccupazione di un attacco da parte dell’esercito inglese. Il duca di Wellington, infatti, minacciava di invadere la Sicilia e solo il trattato sottoscritto con Metternich garantiva a Murat l’esistenza del suo regno. Il 20 marzo 1815 Napoleone lasciò l’Isola d’Elba per fare ritorno a Parigi. Bonaparte si apprestò a vivere i suoi ultimi cento giorni da leone. La coalizione del Congresso di Vienna ( Inghilterra, Austria, Prussia e Russia), superato il primo momento di smarrimento, si preparò ad attaccarlo. In tale contesto l’Austria firmò un trattato di alleanza con Ferdinando III di Borbone e ciò portò Murat a dichiarare guerra all’Austria inanellando un serie di vittorie fino alla gravosa sconfitta di Orbetello (8-9 aprile 1815) e al successivo trattato di Casalanza del successivo 20 maggio (firmato in sua vece da Pietro Colletta). Il trono era perduto, i Borbone sarebbero ritornati a Napoli. Murat, forse disperato, decise di raggiungere Bonaparte, lasciando a Napoli la sua famiglia che non rivedrà mai più. Purtroppo per lui e, forse, anche per le sorti dell’ultima battaglia di Napoleone, questi non lo volle a suo fianco. Certo è che nelle sue memorie Napoleone rimpiangerà di non averlo schierato in campo, a Waterloo. L’ombra della fine si avvicinò sempre più funesta, anche se sembra che Metternich gli abbia offerto un salvacondotto per raggiungere la famiglia in Austria (va anche detto che il marchese di Riviére, che Murat aveva salvato dal patibolo, mise una taglia contro di lui di 48 mila franchi). A questo punto Murat fu attirato in una trappola. Era ad Aiaccio, in Corsica, e da alcuni suoi cortigiani gli venne fatto credere di un forte malcontento a Napoli contro i Borbone e di un popolo pronto a insorgere. Senza riflettere si lasciò convincere e il 28 settembre 1815 salpò dal porto di Aiaccio con circa 250 uomini divisi in sei barconi. Durante la traversata, di quattro di queste barche si persero le tracce. L’8 ottobre 1815 Murat sbarcò nel piccolo porticciolo di Pizzo Calabro con meno di cinquanta uomini. In breve, venne attaccato da una guarnigione dell’esercito borbonico che era stata informata da alcuni delatori, ma più probabilmente lo stavano aspettando. Tutti i suoi uomini vennero trucidati, lui venne incatenato e rinchiuso nel castello. Il giorno dopo giunse l’incredulo (sincero) generale borbonico Vito Nunziante, il quale aveva avuto istruzione da Ferdinando III di processare Murat e di applicare la pena di morte (in base al Codice penale dell’ex delfino di Bonaparte). Il mattino del 13 ottobre 1815, sotto un cielo grigio, Gioacchino Murat venne fucilato. Le cronache riportano che affrontò il plotone di esecuzione con grande dignità. Ora riposa, per l’eternità, sotto il pavimento della Chiesa di San Giorgio a Pizzo Calabro. La pietra che lo sovrasta porta incisa: “Qui è sepolto il re Gioacchino Murat”.