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I numeri dell'economia »

La nuova "debolezza" esalta parametri di ricerca ad efficacia zero. Prigionieri di questi schemi di ragionamento.
L’economista e i suoi “obsoleti” strumenti
La crisi è nel sistema e noi ci comportiamo come se non ci fosse; ma l’uomo è nato per rigenerare l’ambiente in cui dovrà vivere; è questa la sua missione biologica e culturale.

di Pasquale Persico

Da dove ripartire? Un bravo collega di storia dell’economia, il prof. Giuseppe Di Taranto, nel trasferirsi da Salerno a Roma presso la Luiss, ha guadagnato in popolarità. Da anni è quasi ospite fisso in tv come opinionista su cosa  sta accadendo all’economia. Da buon storico si accorge del cambio di paradigma in atto ed attinge ai libri di economia corrente, mentre quasi tutte le leggi (economiche) insegnate attraverso questi stessi libri sono diventate inefficaci rispetto alla crisi in atto. Nella “pubblicità/progresso” messa in campo dai diversi partiti (che divampa) la ricetta del sussidio alle famiglie ed alle imprese accompagnata dallo sblocca-cantieri è il ritornello mediatico più in voga. Un messaggio generalizzato a reti unificate. Ma cos’è un investimento strategico? Tornano utili le mie raccomandazioni al poeta e scrittore Franco Arminio che mi chiedeva di capirne di più.

Le difficoltà dell’economista sono legate all’affermazione che  sono diventati obsoleti i suoi strumenti. La legge di Okun è ancora insegnata: “Se il pil aumenta dell’1% anche l’occupazione aumenta dell’1%, ma anche se l’aumento è del 5 anche l’occupazione aumenta del 5”. La rivoluzione digitale e la globalizzazione hanno rivoluzionato il ciclo della produzione e le nuove tecnologie sono “labour saving” e “capital saving”. La variabile-investimento si lega all’organizzazione innovativa e questo richiede una rivoluzione del sociale  e delle istituzioni. Il secondo paradigma si chiama “moltiplicatore keynesiano” e dice che se aumenta la spesa pubblica aumentano gli investimenti e l’occupazione. Il terzo paradigma riguarda l’idea che l’abbassamento del salario di ingresso serva a fare occupazione, ma i casi di caporalato dimostrano che questo principio di flessibilità adorato dagli economisti liberali uccide la dignità del lavoro.

Oggi,  nella nuova crisi di sistema nella quale siamo precipitati, sicuramente queste leggi hanno efficacia zero, allora perché rimaniamo prigionieri di questi schemi di ragionamento? Perché sono il solo linguaggio che possediamo, perché manca la ricerca più autentica di nuovi paradigmi?

C’è dunque un lavoro da fare su diversi piani: sull’esistente, che è asimmetrico, e che bisogna rendere più equilibrato; e sull’alternativa: dove mi conduce l’esistente? Quali sono le conseguenze umane, ecologiche, sociali? È un buon modello quello a cui abbiamo fatto riferimento?

Le società sono creative, producono soluzioni che non rientrano necessariamente nello schema di ieri, per esempio hanno modi di occupare il territorio che vanno al di là delle frontiere costituite dai modelli di sviluppo. Le società producono una dimensione economica articolata con un ambito, per così dire, relazionale, con elementi della propria cultura e del proprio ambiente. L’economia è fondamentalmente antropologica e creativa. Il problema è che i nostri ricercatori non investono su tutto quanto abbiamo detto per capirlo, teorizzarlo, per comprendere se e dove questi modelli hanno un potere d’irradiazione, se sono forti o deboli, cosa si può sistematizzare, cosa si può replicare, cosa si può aumentare di scala, di scopo e di diversità. È un problema di valenza dello sguardo.

Molti economisti seri hanno iniziato a riflettere sull’economia post-capitalista senza demonizzarla, hanno consapevolezza che è arrivato  il giorno in cui bisogna cambiare direzione e si chiedono su quale fondamento le società umane potranno creare valore secondo i loro bisogni quando non sarà più valido il ragionamento su cui si basa l’economia attuale.

La crisi di cui si parla sempre, quella del 2007/8 per intenderci, è servita soprattutto come occasione per rinforzare le politiche neo-liberali. La catastrofe nella quale stiamo vivendo è un altro discorso e fare riferimento ai vecchi paradigmi è un “suicidio” politico ed intellettuale.

Siamo nell’era del “debito ecologico” e la riconnessione alla soggettività della natura è il punto di ripartenza per un’economia in cui la definizione “misura temporale” e il termine “rispetto” hanno supremazia nella nuova “contabilità sociale” da inventare e verificare.

La crisi è nel sistema e noi ci comportiamo come se non ci fosse; ma l’uomo è nato per rigenerare l’ambiente in cui dovrà vivere, è questa la sua missione biologica e culturale, (vedi – via Google – le riflessioni sulla città bastevole e la quinta urbanità di Amedeo Trezza e Pasquale Persico).

Foto Pasquale Persico
Pasquale Persico
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