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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Il racconto. Il ricordo di un bambino di quarta elementare alle prese con le incertezze della vita quotidiana.
Le elementari, la maestra Rosa e gli “imprevisti”
“A piedi, da solo, nessuno lo avrebbe accompagnato. La madre vicino la porta di casa gli diede due o tre monete e gli sussurrò di andare a comprarsi un bel panino in modo da avere qualcosa da mangiare mentre aspettava di essere ascoltato dagli insegnanti all’esame”.

Quell’anno – fino a quei giorni di inizio estate – aveva trovato con naturalezza il suo percorso, senza che nulla accadesse di non facilmente prevedibile. In quarta elementare le cose erano andate piuttosto bene, la maestra Rosa era stata senza dubbio la migliore della sua classe. Senza di lei nessuno di quei circa trenta giovinetti avrebbe potuto imparare niente di niente. I mesi erano volati avanti e tutti quanti si erano ritrovati a pensare che, in fondo, la scuola, incredibilmente, poteva definirsi bella, molto vicina a qualcosa di irripetibile, oltre che di sensato. Quando alla fine di maggio si era entrati nelle ultime giornate – tra un’interrogazione e qualche ricreazione prolungata – non si attendeva altro che il periodo di vacanza. Dove? Come? Per lui – nove anni – le domande erano meno scontate rispetto ai suoi “amici”, che, per la verità, si apprestavano a pochi momenti da passare da qualche parte per, poi, ritornare in città a non fare nulla, se non attendere che la scuola riprendesse il suo ciclo virtuoso.

Si ricordò, proprio in quel momento, una mattina importante, mentre frequentava la quinta e non la quarta elementare. Si era alzato presto ed era già pronto per andare a scuola. A piedi, da solo, nessuno lo avrebbe accompagnato. La madre vicino la porta di casa – al quinto piano di quel palazzone così grande in una strada di periferia (trasformatasi, in poco tempo, in una via centralissima) – gli diede due o tre monete e gli sussurrò di andare a comprarsi un bel panino, una rosetta, con quel salame che a lui piaceva tanto: sì, quello “milanese”, in modo da avere qualcosa da mangiare mentre aspettava di essere ascoltato dagli insegnanti all’esame. Chissà perché, ma quella scena gli tornava sempre in mente quando pensava agli anni delle elementari. Esami che ricordava schematicamente. In effetti, aveva risposto, all’orale, a un paio di domande di grammatica (aggettivo o avverbio?) e aveva imbroccato il passato remoto di un verbo complicato. Insomma, era andata bene. La maestra Rosa era parsa contenta, significava che l’esame poteva andare in archivio nel migliore dei modi.

Ma nella mente aveva, in quel momento, da ripercorrere l’inizio dell’estate alla fine  della quarta classe. Perché? Perché gli sembravano, quei giorni, la premessa necessaria  per rendersi ancora conto – dopo cinquant’anni – che proprio quando tutto appare in qualche modo scontato, “facile”, prevedibile e forse “felice”, in realtà non prende quasi mai la “forma” che abbiamo immaginato. E’ così  che si delineava nella sua mente come per tanto tempo viviamo nell’attesa di qualcosa che abbiamo, in qualche modo, già “fotografato”, che è vivo e presente nel nostro immaginario, al punto che è più tra quanto “deve accadere” che non tra quanto, invece, “non accadrà”. Ma gli mancava ancora il passaggio fondamentale, peraltro banale: l’imprevisto. E se fino a poco tempo prima non aveva mai auspicato il verificarsi di qualcosa al di fuori della sua immaginazione, ora, sempre più spesso, aveva imparato ad affidarsi al “colpo di scena” che, alla fine, premia chi ha tanto “sognato”. Con l’interrogativo, però, che lo faceva ritornare un bambino di quarta elementare. E se nemmeno la maestra Rosa non avesse più potuto aiutarlo e sostenerlo? In fondo, la vera lezione, nel tempo, era rimasta sempre la stessa: nulla è davvero nelle nostre mani, anche quando abbiamo prodotto il massimo sforzo per raggiungere quella che per noi è davvero la cosa migliore.

Ernesto Pappalardo

direttore@salernoeconomy.it

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