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I numeri dell'economia »

L’impressione complessiva è che l’Unione europea sia strattonata tra una proiezione nordica e una meridionale e mediterranea, dimenticando l’insegnamento di Aldo Moro.
La strada “stretta” di Draghi? E’ poco percorribile
Luigi Esposito: “Ma esiste veramente un’incongruenza, una contraddizione, fra la vocazione manifatturiera (e, anzi, addirittura distrettuale) del Paese Italia e la velocità con cui un’area metropolitana come quella milanese ha messo le ali alla sua crescita economica fondata essenzialmente sulle nuove tecnologie?”

di Pasquale Persico

Il ritorno di Draghi nella leadership della politica europea sembra allontanarsi, le ipotesi macroeconomiche su come arrivare ad un debito comune per dare sostenibilità ed incisività alla politica fiscale, necessaria come pane ed acqua per la sopravvivenza dell’identità del continente europeo (non ancora in decadenza definitiva), sono poggiate sulla capacità di pochi Paesi di elaborare un progetto keynesiano di riforma della funzionalità (efficacia ed efficienza ) del modello capitalista liberale dell’Europa che verrà. In realtà tutte le ipotesi di Draghi hanno un percorso fuori dalle tendenze auspicate dal modello Merkel, a cui lui indirettamente, o per parti, fa ancora riferimento. Quel modello è stato definitivamente avversato durante la presidenza Trump e dal  Pentagono durante la Presidenza Biden. L’Europa auspicata dalla  costituzione non approvata è stata boicottata, per responsabilità specifica della Francia, ed anche quella esistente viene poco applicata, pertanto anche la nuova idea di indebitamento graduale e comune della Germania, ha difficoltà ad emergere. Ma vediamo gli altri temi.

Sulle migrazioni, l’Unione continua a duellare al proprio interno sulla combinazione tra i principi, fondativi dei trattati, di solidarietà e responsabilità e voglia di nazionalismi tradizionali o ancora più regressivi. Le conclusioni dell’ex presidente del Consiglio Europeo sulla dimensione enorme, esterna ed interna, delle migrazioni confermano che l’Unione rischia di rimanere ferma al solito bivio. Se, da un lato, vi è determinazione comune a smantellare le attività dei trafficanti di esseri umani, sul contrasto alle cause profonde delle migrazioni, sulla comune opinione che le migrazioni richiedano una risposta europea, restano aperte le questioni del ricollocamento dei migranti e delle diverse forme di solidarietà,  che solo alcuni Paesi sono disponibili ad esprimere (diverse dall’accoglienza di asilo e tutte orientate a dare un minimo di credibilità al cosiddetto Piano Mattei).

A un decennio dalla strage di Lampedusa, che scosse le coscienze europee, i 27 non sono riusciti a prendere le misure su un tema ultrasensibile sul piano elettorale e dalla cui gestione comune, però, non si può prescindere se si vuole cercare di capovolgere la necessaria piramide demografica. Il tema resta; la posizione dell’Unione rispetto al Mediterraneo dovrà, come minimo, essere  quella di sostenere la presenza dell’Unione Africana nei consessi internazionali e in particolare nel G20. L’impressione complessiva è che l’Unione europea sia strattonata tra una proiezione nordica e una meridionale e mediterranea, dimenticando l’insegnamento di Aldo Moro: “Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa ed essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”. Del vicinato mediterraneo, spesso, si dimentica che fanno parte anche i Paesi dei Balcani occidentali e la prospettiva di adesione di questi Paesi alla Ue è un tema complesso ancora senza un vero progetto di politica dell’intero Continente (specie in presenza dello stato di guerre multiple nel Mediterraneo). La spinta a potenziare competitività e produttività, rafforzando la politica industriale, favorendo la crescita, riducendo gli oneri amministrativi e le dipendenze strategiche, specie nei settori più sensibili, è poco analizzata da Draghi: prevale il tema della sostenibilità finanziaria ed il ruolo delle banche resta per Draghi cruciale per la sostenibilità dell’Unione bancaria. L’aspirazione della UE a diventare un player fondamentale sull’intelligenza artificiale cogliendone le immense opportunità, accanto alle altre opzioni relative all’industria a zero emissioni nette e alle materie prime critiche, ha molte azioni appena alla partenza.

In gioco ci sono la resilienza e la sicurezza economica dell’Unione i cui interessi vanno difesi coniugando tale protezione con il preservare quell’economia aperta che deve restare uno dei tratti distintivi dell’Unione stessa. Un tema che diventa scivoloso in un momento in cui per l’Unione è fondamentale valutare gli impatti in Europa della legge statunitense sulla riduzione dell’inflazione (Inflation Reduction Act– IRA) e l’efficacia delle misure di risposta adottate sia dall’Unione che dai suoi Stati membri in maniera non coordinata. E, qui, emerge la visione ancora in ritardo sulla politica economica europea – ed in particolare sulla politica industriale – che senza una strategia indebolisce anche le cosiddette periferie competitive legate alla geografia del manifatturiero. Su questi temi il PNRR ha tentato di avere un approccio, guardando al Mezzogiorno dell’Europa da connettere ai Sud a Sud dell’Africa. Lo sguardo ad altri continenti è sospeso, e dare spessore strategico alla rimodulazione delle catene del valore globale non sarà una passeggiata indolore. Occorrerà una nuova geografia di riferimento, tutta da promuovere rispetto al tema dei distretti competitivi di cui si è parlato sia in Italia che in Germania durante il periodo della leadership della Merkel, che sapeva parlare in russo ed in inglese e perfino un poco il napoletano.

Come evitare la scomparsa delle periferie competitive è invece centrale ed un primo piccolo focus è stato illuminato dall’amico Luigi Esposito. Egli ci ha già illustrato il ritardo da colmare in termini di ricerca applicata e di governance  territoriale per fare crescere la dimensione d’impresa. La recente esperienza degli ecosistemi di innovazione che ha coinvolto la ricerca applicata dei dipartimenti universitari e degli istituti CNR e molti partenariati industriali diffusi sul territorio, ha bisogno di valutazioni rigorose e trasparenti. Prevale una tendenza oramai esplicita ad andare verso uno spiazzamento,  rafforzando la ricerca e sviluppo sulla sicurezza e sulla difesa, rinviando la storica esigenza di portare la spesa in ricerca e sviluppo non in armamenti al di sopra del 2% del Pil.

Tre mesi sono pochi, e non saranno sufficienti nemmeno le deboli, ma necessarie,  raccomandazioni di Draghi, per dare trasparenza alla politica economica. I decisori europei non sono in entropia positiva e non appaiono “animati” dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee. Già, la nostra Patria Europa. Sarebbe tutto più semplice se i fatti riuscissero a dimostrare a tutti (come è già chiaro a molti) che essa non è in contrasto, ma in  fraternità inscindibile con le nostre patrie nazionali. Identità e diversità dovrà essere il paradigma di riferimento del dopo elezioni.

Il libro “Periferie competitive”.

Lo sviluppo dei territori nell’economia della conoscenza (Il Mulino) – di Giulio Buciuni e Giancarlo Corò – sollecita un approfondimento. L’amico Luigi Esposito ha già dato un contributo importante sulle quasi-rendite delle economie esterne, in altri scritti e ci offre una prima riflessione. Eccola. “Caro Prof. sto leggendo il volumetto che mi hai donato e, in particolare, sto approfondendo il problema dei crescenti divari within countries da imputare allo sviluppo economico abnorme di centri metropolitani come Londra, Parigi, Milano ed altri. (v. soprattutto Cap. II, pp.43-79). Gli Autori partono da una premessa: l’Italia, ma anche la Francia, la Germania, ecc. resta un Paese con una struttura economica avente una fortissima presenza manifatturiera diffusa (ma io direi anche una forte presenza di distretti industriali a diversa densità); ciò nonostante, l’area metropolitana a più forte sviluppo di Pil (o forse di reddito disponibile, ma qui c’è un po’ di confusione perché non sembra che gli Autori siano esperti profondi anche di Statistica Economica) è quella di Milano. Città  che, nell’ultimo quarto di secolo, ha abbandonato la coltivazione degli assets  materiali per dedicarsi a processi sempre più intensi di dematerializzazione ecc. ecc. ecc.  Il tutto, aggiungerei, potendo beneficiare sempre delle stesse buone strutture universitarie (ma l’evoluzione interna eventuale di queste ultime mi è sconosciuta e non mi azzardo pertanto ad avanzare ipotesi specifiche). Mi chiedo: ma esiste veramente un’incongruenza, una contraddizione, fra la vocazione manifatturiera (e, anzi, addirittura distrettuale) del Paese Italia e la velocità con cui un’area metropolitana come quella milanese ha messo le ali alla sua crescita economica fondata essenzialmente sulle nuove tecnologie, sulle nuove conoscenze, senza rivelare affatto un forte sviluppo di unità locali destinate alla produzione industriale? Ebbene, oserei affermare che non esiste alcuna contraddizione di questo tipo, almeno se per un attimo ritorniamo a quel concetto di impresa complessa, e di azienda vertice di un’impresa complessa, che abbiamo analizzato nel precedente articolo di questa rivista o newletter di Salerno Economy. Non è il caso di dilungarsi: meglio utilizzare subito un esempio classico, quello dell’alta moda, concentrata da decenni nell’area milanese sia pure con fughe a Firenze e Roma. Nel Milanese si concentrano tutte le attività orientate al prodotto (colori, tessuti, modelli, ecc.) e tutte quelle di marketing in senso stretto, dalla programmazione delle sfilate a quella delle varie fasi della promozione e della vendita. Restano fuori, appunto, tutte la attività di produzione dei capi, decentrate altrove (restando in Campania, dal Beneventano ad alcune aree del Vesuviano, ad altre di Napoli e Caserta ove trattasi di produzione di scarpe e borse). Dunque, c’è un vertice milanese che possiede, o semplicemente controlla, altre realtà aziendali incaricate di svolgere funzioni evolute; inoltre, esso s’incarica di reperire ed utilizzare microstrutture distrettuali cui vengono appaltate compiti di produzione esecutiva, senza che con tali realtà aziendali ci siano necessariamente rapporti di tipo organico, (si ricorda la distinzione di Marx nello sviluppo del Capitalismo tra manifattura organica e disorganica)

Mi sembra un’interpretazione esaustiva della realtà dei fatti. Più in là cercherò di approfondire le altre problematiche presenti nel volumetto, e soprattutto la possibilità di estendere il tema delle periferie competitive in altre aree o regioni”.

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Pasquale Persico
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