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La revisione della stima del PIL e la Politica Economica di Gianluigi Coppola

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.Dal prossimo settembre l’ISTAT, l’istituto nazionale di statistica, cambierà il metodo di stima del Prodotto Interno Lordo, al fine di adeguarsi al nuovo sistema europeo di conti (Sec 2010) così come definito dal regolamento Ue (549/2013).
Tra le novità di tale cambiamento rientra anche l’inclusione nel calcolo del PIL di tutte le attività che producono reddito indipendentemente dal loro stato giuridico. Saranno quindi computate anche le attività illegali, tra le quali rientrano i servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette e alcol) e il traffico di sostanze stupefacenti.
Il 22 settembre l’ISTAT pubblicherà i dati sul PIL sulla base dei nuovi metodi di stima.
Secondo stime Nomisma (Il Sole 24Ore del 22.08.2014) il PIL dovrebbe aumentare tra l’1 e il 2%. Ciò comporterebbe una riduzione del rapporto deficit/PIL dello 0,1%, e del rapporto debito/PIL tra il 2,6 e il 2.7%.
Intanto il Governo ha rinviato a ottobre l’aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (DEF) forse perché spera che la revisione verso l’alto delle stime del PIL e la conseguente riduzione dei rapporti deficit/PIL e debito/PIL potrebbero evitare una manovra correttiva che comporti ulteriori aumenti dell’imposizione fiscale e/o consistenti tagli alla spesa pubblica.
E’ così che un più diffuso uso di droghe, un’importante attività di contrabbando oppure un ampio giro di prostituzione potrebbero trasformarsi in un beneficio per il governo grazie all’impatto che essi hanno sui conti pubblici e soprattutto su quei vincoli di politica economica (deficit/PIL, debito/PIL) che tanto stanno condizionando l’andamento della crisi economica e soprattutto le scelte del governi dei Paesi dell’Europa meridionale. È il classico caso in cui i vizi privati si traducono in pubbliche virtù come nella favola delle api di Bernard de Mandeville.
In altri termini il perseguimento acritico del rispetto di parametri prefissati a livello comunitario quali il rapporto deficit/PIL o debito/PIL potrebbe portare a distorsioni e paradossi. Uno di questi potrebbe essere che il contrasto alle attività illegali e criminali da parte del Governo avvenga in base ad un calcolo opportunistico in cui gli effetti di breve periodo (rispetto dei parametri di Maastricht) prevalgono su quelli di lungo periodo, quali, ad esempio, il rispetto della legalità e recupero dei tossicodipendenti.
Lo Stato italiano ha già dato prova di compiere scelte di tale tipo. Si pensi ad esempio al settore del Gioco d’azzardo. Nel corso degli ultimi quindici anni si è assistito ad una progressiva legalizzazione e contemporanea liberalizzazione del settore che ha comportato l’esplosione del gioco d’azzardo in tutto il Paese.
Deve essere chiaro a questo punto che il PIL “si allontana sempre più dalla misura del benessere” come ha affermato anche Enrico Giovannini, ex presidente dell’Istat, il quale è stato nel 2002, in qualità di direttore delle statistiche dell’Ocse, un fautore dell’inserimento di tale attività nel calcolo del PIL.
Ne deriva che se il PIl non è un indicatore di benessere, la crescita del PIL, ovvero la crescita economica, non può essere considerata una misura dell’aumento del benessere sociale. Infatti, essa, a mio avviso, essa rappresenta soltanto un indicatore di una potenziale stabilità sociale.
Si pensi, ad esempio, ad una famiglia, la cui coesione è affidata quasi esclusivamente alla crescita della ricchezza e del benessere che il capofamiglia riesce ad assicurare di anno in anno ai suoi componenti. La famiglia sarà unita sino a quando il capofamiglia riuscirà a portare a casa sempre più risorse in modo tale da permettere ai suoi familiari livelli crescenti di consumo ed evitare qualsiasi conflitto di tipo distributivo. Il giorno in cui ciò non sarà più realizzabile, quella famiglia cesserà di esistere.
Ecco, l’Unione Europea si sta muovendo in questo modo. Si punta e si cerca in modo acritico la crescita economica, al fine di evitare il conflitto tra stati – e all’interno degli stati tra generazioni e tra gruppi sociali, confidando quasi esclusivamente nel mercato quale unica istituzione creatrice di ricchezza.
In tale visione, la politica e la politica economica sono considerate in un’accezione negativa (alcuni economisti, quali, ad esempio Alesina Giavazzi e Zingales, considerano la spesa pubblica la principale fonte di corruzione di un Paese) e si cerca di limitarne il campo d’azione fissando apriori parametri, come quelli di Maastricht, oppure regole, come quelle del fiscal compact, che fungono da piloti automatici, mentre si tende ad aumentare le potenzialità del mercato, attraverso riforme che ne aumentino la capacita di produrre reddito e ricchezza, qualsiasi sia la fonte della ricchezza stessa e qualsiasi sia l’aumento della conflittualità sociale che esse comportano.
In tal modo la stabilità sociale, viene affidata quasi esclusivamente al mercato, e alla sua crescita, data dal contestuale aumento della domanda e dell’offerta, oltreché alla stabilità dei prezzi.Purtroppo siamo in un’economia di mercato e l’esperienza storica ci insegna che il mercato, anche se è un’importantissima istituzione creatrice di ricchezza, è esso stesso instabile. Non si può fare a meno della politica, e non si può limitarla neanche attraverso l’ideazione di piloti automatici. E, ci preme aggiungere che con la politica non si può fare a meno neanche dell’etica, come ci ha insegnato Aristotele. In sintesi, lo sviluppo economico non è un bene assoluto e la crescita economica non è un processo privo di costi. Esso è, secondo Schumpeter, frutto soprattutto di un processo di creazione distruttrice, e in alcune fasi può portare anche all’aumento delle diseguaglianze così come ben rappresentato dalla curva di Kuznets. Pensare di trovare la soluzione ai problemi sociali soltanto affidandosi alla crescita economica, evitando e/o limitando le scelte di politiche economiche, è un’utopia che potrebbe rilevarsi anche molto pericolosa.
In questo contesto, in presenza di parametri che devono essere raggiunti a tutti i costi, la revisione del PIL, se da un lato soddisfare un legittimo bisogno di conoscenza della realtà economica del Paese, dall’altro può portare il Governo a compiere scelte distorte in cui i benefici contabili sono di gran lunga minori dei costi sociali.
Gianluigi Coppola – Università degli Studi di Salerno


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