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La riflessione riguarda l’Europa e la sua “malattia” che era esplicita già nella riflessione di A. Camus del 1955; essa mette in risalto il “come” l’Europa ha interpretato la sua integrazione economica, separata dalla visione del “come andare” verso Cosmopolis. La considerazione del presidente emerito della Corte Costituzione è ancora oggi attuale, ecco le sue parole:
“In realtà sono convinto che l’Europa stia tradendo se stessa e che la sua malattia sia un tradimento di sé e dei valori (non soltanto economici) che ha saputo trarre dalla propria storia e dal proprio presente; la cura di questa malattia richiede un riflessione sull’economia e tanto tanto Maritain. Quando si parla di bilanci, (o di Patti di Stabilità), è difficile che si manifesti uno spirito molto diverso da quello puramente contabile, ma è sbagliato pensare che questo esaurisca il senso dell’Europa e bisogna diffidare dagli editoriali in cui si finisce per far coincidere l’essere dell’Europa con la difficile elaborazione e decisione comune su un bilancio europeo. Non dico che l’economia non abbia importanza; ma della malattia del nostro continente, essa è in parte responsabile, ma l’equivoco può essere nato da una visione impropria di ciò che i padri fondatori decisero di fare quando si adottò la decisione di costruire l’Europa a partire da un mercato comune”.
Con questa prima riflessione, si vuole ribadire che la finalità ultima dell’Unione Europea era ed è la pace tra gli europei. Ed è una finalità che è nata da un orrore della guerra che non è esterno ma tutto interno alle coscienze delle generazioni che la guerra l’hanno vissuta e che, soprattutto, hanno sentito sulle loro spalle la responsabilità di due conflitti mondiali e dell’esplosione dell’ordigno nucleare per la prima volta nella storia, con la consapevolezza che ciò ha avuto origine all’interno dell’Europa. Diventava prioritario creare un’identità di interessi attorno a cui cominciare a costruire un’identità di molti, creare conseguentemente le premesse di una comune cittadinanza europea all’interno della quale le differenze permangono ma come connotati di ciascuno in quanto – lo dice Maritain – membro di una comunità.
Fare emergere una proiezione in una società politica è la vera propensione. Necessaria, essa è quella che conferisce la cittadinanza che diviene europea e plurale.
Si era arrivati al punto culturale, secondo la Dichiarazione di Copenaghen del 1993: i Paesi che avranno accesso all’Unione Europea dovranno dimostrare di aderire ai valori e ai princìpi europei per quanto riguarda i diritti della persona e delle minoranze, fino a saper utilizzare le diversità che progressivamente arricchiranno la propria identità.
C’è, per fortuna, una comunità che sta crescendo, anche oggi, ed è la nostra speranza. Perché sta affidando buona parte di sé ad un sentire che prende corpo e che viene progressivamente riconosciuto come potenziale maggioranza. Questa costruzione di valori è, dunque, una costruzione dal basso perché coinvolge tutti nel momento in cui viene agevolata la formazione di un consenso comune intorno ai diritti, ai valori e ai princìpi europei; è questo il processo che, esaminando la storia d’Europa, ha arricchito culturalmente il Continente, che l’ha reso, quindi, una democrazia e ne ha fatto la parte del mondo che per prima ha visto l’affermazione dei diritti umani, della persona e non degli individui.
Ecco Maritain, ecco la necessità di unirlo al pensiero di A. Camus per affrontare i temi della prossima campagna elettorale per le Europee. E Giuliano Amato ci ricorda che “quando, in una fase precisa della nostra storia di europei (e pensava proprio a Copenhagen 1993), noi abbiamo guardato ai Paesi fuori dall’Unione Europea, ad esempio ai Balcani, lo abbiamo fatto esattamente da questa prospettiva. Entrare a fare parte dell’Unione è possibile solo se si comprende che la cittadinanza prescinde dall’essere serbo o bosniaco, dall’essere cristiano o musulmano, dall’essere ortodosso o cattolico”.