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La “manutenzione” dei comportamenti istituzionali - molto lontani dai G7 e G20 attuali - esprime mille compromessi.
La guerra “obsoleta” di Putin, tra “credenze deboli” e democrazie liberali
L’ipotesi di un’Europa “sconfitta” perché non unita è fortemente in campo, anche in considerazione dell’affermarsi di alcuni pensieri opposti a quelli di A. Camus e di Simone Weil.

di Pasquale Persico

Antonio Maria Costa nel suo interessante libro – “La guerra di Putin.” ed. Gribaudo –  ci offre un racconto a maglie larghe di come la consapevolezza di un “attacco alla democrazia in Europa” sia stato percepito con colpevole ritardo: cresce, per lui, il pericolo che le credenze necessarie a moltiplicare i sentimenti a difesa dei valori delle Costituzioni democratiche accumulino stanchezza. Le contraddizioni sul come uscire dalla guerra sono tutte in campo ed il suo racconto mette in risalto molti aspetti di questo groviglio di comportamenti ondivaghi delle nazioni. Il racconto è poggiato sulla sua grande esperienza maturata in organismi internazionali  (sottosegretario generale Ocde e vice segretario Onu) , ma, soprattutto,  sulla necessità di evidenziare che non c’è più tempo: non si può essere indecisi sul perché sostenere il bene della democrazia e dei valori: diritti reclamati dal popolo ucraino. Diritti che  sono quelli della Costituzione europea  e di altre Costituzioni (non solo del mondo occidentale).

La spinta a muoversi non dovrebbe ulteriormente indebolirsi, le recenti vittorie del popolo ucraino potrebbero consolidare questa propulsione necessaria, ma, per Costa,  non scontata. Egli abbraccia con il suo “Macroscopio” della mente ((Joel De  Rosnay, Dedalo, 1978) tutte  le sue esperienze e rappresenta i nodi di una guerra fuori dalla storia, inimmaginabile: ma nella storia politica della Russia questa guerra è ben connessa al dopo  Gorbaciov ed al riconoscimento fatto alla Russia, sopratutto dagli Usa, di interlocutore privilegiato dell’Occidente, nonostante la drammatica situazione socio-economica di quella nazione a partire da quel periodo.

E Costa parte proprio dal rancore di Putin in quel tempo (dopo il suo ritorno dalla Germania dell’Est); ricostruisce il modello di autocrazia a base “barbara”, per riconnetterlo ad una visione imperiale non contemporanea, come invece quella cinese.

Vengono messe in rassegna le debolezze occidentali nel tollerare politiche di riappropriazione di territori che già prima del ‘92  avevano chiesto alla grande Russia una maggiore autonomia, sebbene  a democrazia controllata. L’Ucraina era già allora la nazione, nell’area baltica, con più fermenti e più ricca di risorse capaci di farla svolgere un ruolo di  piena autonomia economica.

Oltre un decennio fa la Russia di Putin mette ordine, a suo modo, nel definire i confini della aree ricche di risorse dell’Ucraina e, pur violando la carta dell’Onu, non subisce   una reazione forte del mondo occidentale, ancora troppo legato alla Russia per la dipendenza energetica e non solo (vedi le penetrazioni russe nelle decisioni nel mondo della  politica, da contrappunto a quelle Usa).

Costa mette al centro della riflessione questa situazione di stanchezza nella manutenzione delle credenze e dei valori occidentali: l’empatia per i modelli ad oligarchia illiberale sta aumentando anche in connessione  con i successi della politica economica della Cina e di altri Paesi, (Nato e non Nato).

Forse, se non ci fosse stata la resistenza ad oltranza del popolo Ucraino, non sarebbero nate nemmeno le posizioni politiche attuali dell’Europa e degli Stati Uniti; gli Usa, poi, si erano già mostrati con Trump disponibili ad assecondare le nuove propensioni della Russia verso i Balcani ed il loro disimpegno dall’Afganistan ha finito per incoraggiare la strategia di guerra arcaica di Putin.

Oggi il dato è tratto, e vi è ancora il pericolo che la stanchezza occidentale favorisca una pace di compromesso, anche se le notizie sulla riconquista di territori ucraini potrebbero fare allontanare questa prospettiva, che rimane, comunque, all’orizzonte, nelle argomentazioni di Costa.

La sua tesi è che Putin non può vincere perché la guerra è condotta con armi obsolete; l’ipotesi è valida  proprio perché resta in campo, con più forza, la strategia della Cina.

La direzione giusta, per me – per uscire dalla situazione di crisi – era già chiara a partire dalla pandemia:  l’economia del continente europeo deve basarsi su una nuova politica, una nuova politica economica dell’Unione a massa critica istituzionale rappresentativa, capace di  fare avanzare una visone policentrica del mondo (vedi il discorso ultimo del Papa in Kazakhistan, dove finalmente emerge, e con ritardo anche della Chiesa, il pensiero di A. Camus sulla civiltà plurale e quello di Simone Weil sull’amore incondizionato per l’altro).

Resta la domanda di Costa: potrebbe prevalere il compromesso connesso alla miriadi di interessi incrociati che mischiano i perché continuare la guerra con i perché di una  pace che è pur sempre un risultato?

La guerra vera che  va combattuta con finanza, economia e politica, deve trovare altre modalità di azione; perché il focus sulle economie dei continenti deve diventare più largo, e lo spettro delle politiche possibili parte dalla complessità delle problematiche del clima e della transizione ecologica, rimettendo in campo la soggettività istituzionale di tutti i territori e di tutte le nazioni, richiedendo l’attivazione di un nuovo G20 moltiplicato.

A mio parere, si  poteva  partire dai pensieri  contrapposti della Merkel e di Putin, a cominciare da dopo la caduta del muro di Berlino. Il loro diverso protagonismo, nel rafforzare l’idea di Europa unita e di Russia “riunita”, doveva dare più sostanza alla tesi principale del libro, mettendo bene in luce una prospettiva fondamentale: quella dell’euro, che  non è del tutto analizzata.

Ma la storia di oggi prevede anche altri percorsi: l’ipotesi di un’Europa sconfitta e non unita è fortemente in campo, anche in considerazione dell’affermarsi di alcune credenze opposte a quelle di A.  Camus e di Simone Weil, che richiederebbero una “rivoluzione” più che una “manutenzione” dei comportamenti istituzionali, come un G moltiplicato,   molto lontano dai G7 e G20 attuali; in questi anche la sola “manutenzione” della visone economica esprime mille compromessi.

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Pasquale Persico
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