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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Non c’è proprio traccia alcuna di una piena partecipazione alla sfida nella quale siamo già pienamente calati.
La “finta calma” e i progetti appesi nel tempo che verrà
Ora che tutto assume la cadenza dell’impegno improrogabile, siamo solo avvolti nell’atmosfera tipicamente del “nulla” che assume le sembianze di qualcosa che con lentezza esasperante accade.

La domanda costante che si ripropone in questi giorni – in questi mesi  – è, più o meno, sempre la stessa: ma quando ritornerà la “finta calma” che dominava incontrastata il susseguirsi del tempo prima della pandemia? Naturalmente, l’interrogativo nasce dalla constatazione che – oltre il giustificato allarme derivante dal diffondersi dell’epidemia – sostanzialmente, fino a questo momento, la tensione aggiuntiva (ampiamente diffusa) non ha prodotto ancora nulla. Se non robuste aspettative, particolarmente al Sud, che ben si intrecciano con le consuete attese che affondano le radici in anni lontani, molto lontani. In altre parole, in termini di aspettative psicologiche, la “finta calma” – e cioè la radicata e motivata constatazione che niente di concreto si prospetta all’orizzonte qui da noi – è parsa in difficoltà. Ci sono stati momenti – di rara confusione – nei quali la speranza che qualcosa si muovesse nel verso giusto, tendeva verso l’alto. Non dico che ci si aspettasse una parvenza di concretezza, anche un labile seguito al verbo teletrasmesso, ma, almeno, che si intraprendesse una strada nuova, meno agganciata al cielo dei magici annunci. Il tutto diventava, quindi, una prospettiva (una prospettiva) attesa. Sì, in qualche modo, ci eravamo – forse –  convinti che il lungo elenco di cose da fare e che si potevano fare (perché, meglio dirlo con chiarezza, i soldi, la sostanza, avevano preso forma), in effetti era meno astratto di tante altre volte. Non era più la solita politica che prometteva ed elencava, ma un folto raggruppamento di istituzioni stimate e credibili che si poneva al lavoro con consapevolezza e responsabilità.

E, allora, non poteva non prendere forma una constatazione che non può non riproporre il tema di questo momento – e di chissà quanti altri anni ancora – che evidenzia come sia il nostro Paese a non funzionare più amministrativamente, oltre che a scontare il “disagio” di una macchina politica che, ormai, pensa solo a se stessa, slegandosi continuamente da quanto gli chiede il corpo elettorale.

Insomma, mentre il verbo accelerare compare in tutti i discorsi e i richiami che la nostra rappresentanza istituzionale giustamente non fa mancare, ci troviamo, invece, a confrontarci con un “balletto” politico/amministrativo che in questo momento – appare ovvio – pensa solo  alla partita elettorale che tra poco si celebrerà non certamente migliorata dal contesto nel quale si svolge.

E, allora, la “finta calma” diventa, paradossalmente, motivo nostalgico, perché – a cosa si può giungere – almeno non lasciava presagire novità di alcun genere: nulla all’orizzonte si prefigurava di risolutivo. Ma ora, invece, che tanto si potrebbe fare; ora, invece, che una montagna di progetti e di riforme si “devono” – “devono” – concretizzare (ma su questo punto, nonostante date e scadenze già fissate, ogni cosa si auto-avvolge nell’incertezza); ora, invece, che tutto assume la cadenza dell’impegno improrogabile, siamo solo avvolti nell’atmosfera tipicamente del “nulla” che assume le sembianze di qualcosa che, pure, con lentezza esasperante accade.

E’ un modo di fare che ci ha condotti al punto nel quale siamo, ma è veramente triste che, così sembra, in fondo prevalga l’attendere rispetto alla volontà di cambiare. Non c’è proprio traccia alcuna di una piena partecipazione, con tutte le nostre forze, alla sfida nella quale siamo già pienamente calati.

Troppo male abituati ad aspettare che le cose cambino ( o non cambino) da sole.

Ernesto Pappalardo

direttore@salernoeconomy.it

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