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Gli scienziati e i medici ci hanno salvati (più o meno) dagli effetti catastrofici del virus.
Il lavoro, la scuola e i “profeti” della nuova normalità
Nei giorni acuti del lockdown l’Italia ha scoperto anche nel digitale la profondità delle differenze e le rinnovate povertà che la piagano. Le innovazioni vanno accolte e applicate perché aiutano la vita e lo sviluppo di un Paese. Il punto, piuttosto, è impedire che non si rovesci la prospettiva, raccontata come virtuosa, di questo percorso. Che il fine (l’umano) non si trasformi in mezzo.

di Mariano Ragusa

Pronto ad affrontare il plotone di esecuzione degli innovatori per fede. O anche, se il sangue fa orrore, uno di quei “tribunali della storia” che senza fiducia nell’ultimo dei giudici, emettono disinvolte sentenze. Pronto a tutto pur di potere liberamente dire che in questa Fase due (Stagione prima, ci sembra già una serie tv) del Coronavirus, c’è qualcosa che non va. Calma. Non si parla qui di tamponi e screening da intensificare. E nemmeno di distanziamenti da ri-distanziare (o accorciare) o apertura di esercizi commerciali da allargare. No, niente di tutto questo. Almeno non qui ed ora.

Quello che non va è qualcosa di impercettibile e al tempo stesso insistente. E’ un pensiero che si insinua come un venticello primaverile e via via si gonfia per poter diventare un granitico senso comune. Quel venticello è il nuovo fideismo di massa che si affida alla tecnologia. Gli scienziati e i medici ci hanno salvati (più o meno) dagli effetti catastrofici del virus. Perché adesso che ripartiamo non dovrebbero fare il miracolo, di una vita diversa e migliore, i signori della tecnologia e i maghi degli algoritmi?

Il “salto” immunitario.

E’ questa la nuova cultura di massa che sta prendendo coscienza di se stessa. E, di conseguenza, sta prendendo (irretendo?) noi stessi, persone più o meno comuni sopravvissute alla pandemia. Forse il livello di piena consapevolezza e accettazione del venticello presunto rigeneratore, è ancora lontano. Siamo ancora provati dalla reclusione domestica e ci assale l’incertezza da contagio alla vista di chiunque incrociamo per strada. Tuttavia sui grandi media quel novello fideismo dolcemente lievita nelle suadenti parole di certificati esperti. Un sociologo di vaglia ha sciolto, qualche sera fa in tv, l’ode alla bellezza dello smart working. Ne ha parlato come di un Eden ritrovato o conquistato (cambia poco se sia l’una o l’altra cosa). Perché – ecco il suo pensiero – la sua diffusa attivazione, ricomporrà la frattura secolare che abbiamo vissuto tra la vita e il lavoro. Con lo smart working saranno felicemente una sola cosa. E sarà un antidoto alla alienazione. Oggi, argomentava il sociologo, chi lavora, essendo inchiodato ad un destino di pendolare (non fa differenza la lunghezza della distanza), vive una doppia estraneità. Quella dalla propria casa e dal quartiere che lascia per recarsi al lavoro; e quella dai luoghi dove esercita la sua attività. E invece, che bello tenere unite le cose! Strutturare il tempo senza rigida sequenzialità in modo che vita privata, domestica e applicazione lavorativa si intreccino e si scambino di posto.

Ma è bella davvero questa prospettiva? Bella davvero una condizione nella quale il lavoro (e il suo sistema organizzato) si insinua nelle nostre vite e ne assume l’asse disciplinare? Il lavoro e la casa diventano, in questo scenario, i luoghi della socialità futuribile. Tanti individui separati ma connessi. Pronti a produrre al comando di un clic ma nella protezione dello spazio privato. Il passo è breve perché l’immunità sanitaria salti di grado e divenga anche immunità sociale. Con intuibili effetti sulla politica e sui diritti. Temi immani, se ne dovrà parlare.

L’occasione della catastrofe.

Letteratura fantascientifica, dirà tra sé e sé il comandante del plotone di esecuzione (lo abbiamo incontrato all’inizio di queste note) impaziente di portare a termine il suo compito… Può darsi che abbia ragione ma poi tanto nel torto non si sta a prestare ascolto alle parole pronunciate dall’esperto di comunicazione, in veste di programmatore di vite, ascoltate in un altro talk tv. Sarà cinico affermarlo – ha premesso – ma dobbiamo fare di questa catastrofe una opportunità. Che consiste nel fare “ora e non domani” tutto quello che non è stato fatto prima. In primis: recuperare l’arretratezza del nostro Paese nei sistemi generalizzati di digitalizzazione di ogni attività della nostra vita.

E’ certo che ha ragione. Nei giorni acuti del lockdown l’Italia ha scoperto anche nel digitale la profondità delle differenze e le rinnovate povertà che la piagano. Ed è certo che le innovazioni vanno accolte e applicate perché aiutano la vita e lo sviluppo di un Paese. Solo un depresso pauperista può invocare il luddismo contro la rivoluzione tecnologica. Il punto, piuttosto, è impedire che non si rovesci la prospettiva, raccontata come virtuosa, di questo percorso. Che il fine (l’umano) non si trasformi in mezzo. Che il fine non si acquieti nella condizione di variabile, assai dipendente, del mezzo che lo guida e lo sovrasta.

Una scuola on demand?

Un terreno sul quale si sta iniziando a giocare questa partita è la scuola. Il distanziamento dettato dall’epidemia ha trovato una risposta “salvifica” nella Rete. Le lezioni a distanza hanno abbattuto l’isolamento, permesso alla meno peggio la continuità didattica, offerto un appiglio di contatto ai ragazzi. Ma questa è l’emergenza. Il futuro se ne dimenticherà? Tutt’altro. A ridosso della scadenza ravvicinata degli esami di maturità (a distanza, in presenza, in presenza scaglionata, etc…) si avverte montare quel venticello fideista che spinge a farci preferire ciò che l’emergenza ci ha fatto appena sperimentare.

Ecco che, nella confusione del momento, si delineano alcuni schieramenti nati sul campo della contingenza degli esami di maturità ma sufficientemente indicativi di orientamenti di opinioni. Da un lato gli “entusiasti a prescindere”, che guardano alla scuola a distanza come la perfetta, replicabile ed estensibile trasposizione dell’innovazione nella didattica; dall’altro gli sperimentatori cauti, pronti a ricreare una classe attraverso il computer ma solo per attività parziali. La ministra competente (tecnicamente la si aggettiva così) non è stata in silenzio. Tra i tanti accenni di proposte, sfornate a beneficio di stampa, ha lasciato immaginare scuole nelle quali si faccia l’una e l’altra cosa (reale e virtuale, per semplificare) attraverso ovviamente cervellotiche rotazioni e utilizzo delle aule. Passi per l’immaginazione che, pur in coloritura diafana, è sempre per tradizione al potere, ma c’è da chiedersi: e i soldi? Ci sono i soldi per una operazione di tale vasta portata ed investimento? Sono arrivati con il contagocce (o mai) quelli necessari a puntellare istituti sull’orlo del crollo strutturale, c’è diversa garanzia perché miglior sorte abbiano quelli per computer e connessioni?

Ma il punto della questione, e questo sì proiettato seriamente oltre l’emergenza, è intendersi su quale idea di formazione si vuole offrire ai giovani di questo Paese. Se la scuola debba essere ancor di più e magari meglio, il luogo nel quale si costruisce relazione nello scambio docente/alunno e in cui “vive” una esperienza totalizzante che è unica e ripetibile nella sua unicità. O se, invece, dovremo prepararci all’idea di una scuola-piattaforma che distribuisce contenuti profilati e informazioni, esaltando performance e prestazione. Che si vada nell’una o nell’altra direzione dipenderà dalle scelte di governo e del mondo dei formatori. E soprattutto dalla risposta culturale che si sarà in grado di dare alla corsa dell’innovazione.

Perché lo sforzo sia ponderato e non vano, non sarà tempo perso interrogarsi e scovare pensieri. Anche chiedendo aiuto alla letteratura. Come ha fatto, per il Corriere della Sera, Alessandro D’Avenia che è scrittore e anche insegnante. Ha riletto, nella sua rubrica del lunedì, il romanzo di Philip K. Dick “Formica elettrica”. Le pagine del libro ci proiettano nel tempo in cui l’uomo-macchina è una realtà. D’Avenia ne ha fatto metafora intelligente per interpretare la nostra contemporaneità assorbita dal virtuale.  Carson Poole, il protagonista, è la formica meccanica. Nel racconto – ci ricorda D’Avenia – quando la segretaria lo vede al lavoro sui propri circuiti, gli chiede impaurita: “Ti stai riparando?”. Lui risponde: “Mi sto liberando”. Poole non era uno studente o un lavoratore ai tempi del lockdown. Era solo un robot.

Ci fermiamo qui. L’impaziente plotone di esecuzione degli innovatori per fede, che abbiamo lasciato all’inizio del nostro articolo, può prendere la mira.

 

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