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Lo speciale 1 »

Stiamo ricadendo nella crisi finanziaria del 2007? Le banche centrali non riescono ad andare oltre la visione monetarista dello sviluppo.
Il debito pubblico e l’antico approccio keynesiano
La difficoltà a smaltirlo introduce il tema delle chiavi da trovare per aprire le nuove porte della governance interistituzionale globale, ma non facciamoci avvolgere dalla malinconia del futuro e dalla malinconia civile, abbracciamo le comunità vive ed attive.

di Pasquale Persico

Siamo  arrivati alla fine del liberalismo moderno, a socialità sostenibile,  per affidarci alla cultura del debito? La riflessione di questa settimana parte dal “Punto di Arpocrate” di lunedì scorso, dove individuavo il “debito buono” come presupposto per parlare di politica economica e sostenibilità della civiltà plurale. Ma – nonostante  la semplicità dei concetti e i diversi incontri sul tema – l’argomento è stato accantonato dal dibattito politico,  a favore del possibile patto per l’emergenza, che riapre lo spazio per continuare a parlare di possibile sforamento del debito,  a vantaggio di una economia illiberale. Il modello Putin viene addirittura invocato perché l’esercizio del potere finisca per delimitare il campo dei diritti distribuiti. Appare, poi, sullo sfondo, con l’assenteismo, la visione che la politica non sia un’attività da praticare perché gli interessi dei cittadini si sono trasferiti altrove, ed è sparita la loro cittadinanza attiva come argomento da esplorare. Il miraggio di un benessere sussidiato prospetta nuove comodità da ricercare senza l’impegno del dover fare,  accumulando virtù civiche.

Il bastevole come prospettiva viene rimosso, sebbene vi siano teorie economiche che suggeriscono come il prendersi cura – in quanto collettività larga nella transizione ecologica – (allontanando la cultura del debito) renda felici e fertili le menti dei partecipanti al progetto (e fa bene anche alla terra).

La ricerca su come riposizionare la forza del pubblico potere in nuove reti collaborative tra Stati e continenti è un argomento per pochi studiosi, che da  anni predicano sul come svegliarsi dallo stordimento della passione per l’utile (o vantaggio  immediato).

Stiamo ricadendo nella crisi finanziaria del 2007? Essa ha colpito tutte le comunità a livello internazionale con le banche centrali che non sanno più usare il solo strumento a loro disposizione e non riescono ad andare oltre la visione monetarista dello sviluppo.

La guerra ha portato a svelare quello che la pandemia aveva già annunciato: la visione corta delle nazioni guida dei continenti è emersa. Prima avevano condotto l’economia a credere nell’eccesso possibile, cioè che la dislocazione delle produzioni e delle fonti di energia a migliaia di miglia – senza prevedere nessuno stress dei modelli di governance interistituzionali. (Onu, G7, G20, Nato ed accordi bilaterali specifici) – potesse portare ad una crescita generalizzata.

L’Italia da anni soffre di più per il debito perché lo usa senza la cultura del debito buono, cioè orientato alla crescita della produttività totale dei fattori: nel lungo periodo favorisce l’efficacia e l’efficienza dei sistemi produttivi.

Troppa fiducia nella resilienza del sistema e del ruolo di attrattore culturale delle città (turismo ed export)? Questa è la salsa demagogica che ci viene offerta come ricetta risolutiva degli storici problemi: ritardo tecnologico e scientifico, ritardo nella transizione ecologica/emergenza clima, ritardo nella formazione delle competenze/basso tasso di occupazione, ritardo nella risoluzione degli squilibri territoriali, eccesso del peso della povertà e delle disuguaglianze sociali, inversione della piramide della popolazione residente.

Allora? Allora, la pandemia e il disordine annunciato dalla persistenza dello stato di guerra,  richiederebbero di affrontare l’eredità del debito pubblico con una profondità culturale diversa,  a partire dagli studiosi che ancora invocano il solo approccio keynesiano. La difficoltà a smaltirlo introduce il tema delle chiavi da trovare per aprire le nuove porte della governance interistituzionale globale.

La ricerca si dovrà muovere nello spazio largo delle economie dei continenti che a loro volta dovranno abbandonare l’idea della nazione guida perché anch’essa è diventata debole nel produrre democrazia e direzionalità capaci di condizionare la finanza ad anarchia crescente, e questa non è solo presente nei sistemi capitalistici emersi dalla storia.

Le nuove forme organizzative del potere finanziario vivono una stagione fuori dal tradizionale secolo già raccontato, mentre la storia economica da raccontare ha poche analisi  interpretative sulla realtà super complessa che ci circonda; questa realtà, anche a bassa visione politica, oscura la speranza di vivere  tempi interessanti da raccontare.

Non facciamoci avvolgere dalla malinconia del futuro e dalla malinconia civile, abbracciamo le comunità vive ed attive, presenti in tutte le nazioni.

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Pasquale Persico
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