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Perché vietare, oggi, il ruolo di co-generatori di bellezza, da stratificare sull’opera intergenerazionale dei nostri precursori?
Etica ed estetica del paesaggio, tra tutela e innovazione
Il vero patrimonio dell'Italia consiste soprattutto nella molteplicità e varietà dei luoghi, come espressione e conseguenza dell’ineguagliabile ricchezza di biodiversità, fauna e flora, oltre che di laterizi e pietre. Espressione di saper fare, saper erigere, saper essere. O soltanto saper narrare?

di Virgilio Gay*

Siamo all’avvio dei progetti di rigenerazione culturale dei borghi, il bando lotteria del Ministero della Cultura è l’occasione giusta per operare alcune riflessioni sulla poetica del paesaggio e dei borghi, su quello che può essere il loro futuro. Un ragionamento sereno, senza infingimenti. Per ragioni di lavoro viaggio molto e, soprattutto, in treno. Le ampie vetrate e l’alta velocità mi offrono l’opportunità di perdermi con lo sguardo nel paesaggio che vedo scorrere davanti ai miei occhi. Il lento procedere dei treni regionali mi da lunghi scorci di territori interposti tra un paese e l’altro. Tutto quanto mi appare alla vista è, comunque, opera dell’intervento umano.

Dal Trentino al Salento, finis terrae; dal Piemonte al delta Po e alla laguna veneta; da Milano a Ibla, così come nella Campania felix, le stratificazioni antropiche urbane, il suburbio e i campi, arati o meno, i boschi o le coste con i porti e altri attracchi, tutto mostra la sussidiarietà della Natura, la cui opera è stata favorita, instradata o governata nel tempo dalle comunità.

Ecco, allora, che acquisisco la consapevolezza che “il paesaggio” altro non è che espressione delle comunità residenti, dei loro riconosciuti virtù e vizi postumi: sensibilità e bravura, oppure sciatteria e disamore. Non opera autonoma della Natura, né dono di tecnici pianificatori.

Perciò non riesco proprio a comprendere le velleità di supremazia intellettuale di chi si erge a custode del paesaggio. A chi attribuisce patenti di bellezza secondo paradigmi classici o moderni, comunque borghesi, nel senso conservatore del termine.

In effetti, mi convinco che l’esistenza delle Soprintendenze paesaggistiche “condanna” la società civile a una sorta di depressione culturale, con l’avversione a ogni impulso d’innovazione dell’estetica, lasciando le comunità prigioniere del passato, da loro stesse creato, con una pretesa “autoritaria” che si vuole spacciare per etica.

Eppure, ciascuno dovrebbe essere padrone del proprio destino. Tale parola deriva da “destinare” perché, nei termini della nostra questione, sta proprio a rappresentare la finalità d’impiego cui gli interventi antropici erano diretti a conseguire.

Si pensi alla linearità dei filari di viti o degli ulivi, per facilitare la raccolta dei frutti oppure la perimetrazione delle proprietà terriere, per la piantumazione dei cipressi o, ancora, la ricerca di ombreggiature, per le querce.

Emblematico, poi, rileggere F. Braudel: “se un viaggiatore dell’antica Grecia rifacesse oggi il periplo del Mediterraneo”, non riconoscerebbe agavi, fichi d’india, eucalipti e orti con melanzane, peperoni, pomodori e tutto quanto importato dall’Oriente o dall’Occidente. Il rapporto tra territorio e comunità è la caratteristica evidente della cultura locale. La testimonianza del modello di sviluppo conseguito, in ordine alle disponibilità di risorse, mezzi, opportunità e capitale sociale.

Perché vietare, oggi, alle attuali generazioni il ruolo di co-generatori di bellezza, da stratificare sull’opera intergenerazionale dei loro precursori?

Il vero patrimonio dell’Italia consiste proprio nella molteplicità e varietà dei luoghi, così come espressione e conseguenza dell’ineguagliabile ricchezza di biodiversità, per fauna e flora, oltre che laterizi e pietre, saper fare e saper erigere, saper essere. Per oggi, solo saper narrare?

Rimandare a una età dell’oro, da preservare immutabile, significa condannare tutti a un immanentismo che impedisce quelle innovazioni di cui necessita la costruzione di un futuro, rispettoso della libera autodeterminazione delle comunità.

Allora, per estendere tali riflessioni anche ai borghi e per concludere, serve meno dirigismo e maggiore cultura. Intesa come consapevolezza del ruolo che ciascuno ha nello sviluppo della propria comunità, nel destino generale dei luoghi. Occorre recuperare il patrimonio e il paesaggio con una co-progettazione per l’autodeterminazione dei propri fini e indirizzi di continuità a esistere.

E’ necessario discernere, liberamente, tra conservare e trasformare, adattare alla fruizione moderna quello che era frutto di esigenze e stili di vita non più attuali.

Non basta introdurre nuovi “nostalgici” residenti. Basta dare alle comunità restanti l’opportunità di conseguire liberamente la propria autodeterminazione economica, sociale e, di conseguenza, politica.

*Esperto di marketing territoriale

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La forza autonoma del panorama
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