contatore visite free skip to Main Content
info@salernoeconomy.it

GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Istat/Lo scenario delineato sull’occupazione conferma la grave crisi strutturale
E ora non resta che la sfida della produttività

La spietatezza dei numeri (Istat) ha confermato la crisi drammatica che avvolge le regioni del Mezzogiorno evidenziando i termini della gravissima emergenza occupazionale. Al di là di cifre, statistiche, dinamiche e “parabole” calanti, è del tutto chiaro che per provare a ridare almeno la speranza ai senza/lavoro è necessario puntare prioritariamente al miglioramento della capacità produttiva delle imprese. Nel rapporto annuale Istat (sezione: “Il sistema delle imprese: effetti della crisi e potenzialità di crescita”) non a caso si fa riferimento ad una nuova base/dati che consente di stimare (per industria e servizi) “un indicatore di efficienza produttiva” perché “la capacità di essere efficienti, ovvero di generare un livello adeguato di valore aggiunto data la dotazione dei fattori di produzione, rappresenta un elemento decisivo della competitività delle imprese e del sistema economico, incidendo sulla possibilità, delle aziende italiane di essere competitive sui mercati esteri e di sfruttare adeguatamente i frammentati segnali di ripresa di quello interno”. Che cosa ne viene fuori? Prima di tutto che “l’efficienza tecnica” evidenzia “una forte componente dimensionale: i valori medi e mediani aumentano progressivamente nello spostarsi verso le classi a dimensione più elevata in termini di addetti”. Però, “in tale distribuzione, nel segmento delle microimprese (quelle con meno di 10 addetti), che ha un livello medio di efficienza inferiore a quello nazionale, oltre la metà delle unità produttive è più efficiente della media del sistema (+2,7 punti)”. E’ la conferma dell’elevato peso delle microimprese nel sistema produttivo italiano, “ma allo stesso tempo rappresenta anche un segnale della presenza, in questa stessa classe, di una forte variabilità dell’efficienza tecnica tra le diverse imprese”. Se si effettua una valutazione al di là del cosiddetto effetto settoriale risulta che “le unità produttive più efficienti sono le piccole imprese (10-49 addetti), con scostamenti positivi di 4,1 dalla media di settore. Seguono le medie imprese (50-249 addetti), le grandi unità (250 e più addetti) e infine le microimprese (con meno di 10 addetti)”. Che cosa significa? “Tali andamenti sembrano delineare una situazione in cui il mutuo adattamento fra tecnologia e dimensione tende a premiare le piccole e medie imprese”. E questo risultato “appare rilevante alla luce delle caratteristiche strutturali del sistema produttivo italiano, dominato dalle ridotte dimensioni, e sembra confermare come nel tessuto delle piccole e medie imprese risieda una parte non trascurabile del potenziale di competitività del nostro apparato produttivo”.
Naturalmente, “sotto il profilo territoriale emerge una netta divaricazione tra le regioni settentrionali e quelle centrali e meridionali: l’efficienza media è superiore alla media nazionale in tutte le regioni del Nord (ad eccezione della Liguria), in particolare Trentino-Alto Adige (+3,5 punti) e Lombardia (+2,5 punti), e risulta inferiore alla media in tutte le regioni del Centro (ad eccezione del Lazio) e nel Mezzogiorno, in particolare Calabria (-3,9 punti) e Molise (-3,4 punti)”. Dal punto di vista settoriale la maggiore “efficienza assoluta” risiede nell’energia (con una media superiore di 8,1 punti al dato nazionale), nella produzione di beni intermedi (+5,9 punti), nei servizi alle imprese (+5,4 punti), “mentre all’estremo opposto si posizionano i settori del commercio/trasporti/pubblici esercizi (-3,8 punti) e dell’industria dei beni di consumo -1,1 punti. Allo stesso tempo proprio questi ultimi due comparti, insieme a quello dei servizi alla persona, presentano la maggiore eterogeneità nel grado di efficienza delle imprese (…)”.
Se il quadro complessivo è questo appena descritto, “il raggiungimento di condizioni di elevata efficienza può consentire, alle piccole imprese, di affrontare con margini più ampi la pressione (sui costi e sulla gestione aziendale) legata all’attività di export”. Se è vero che “i livelli più elevati di efficienza (“relativa”, che tiene cioè conto delle diversità tecnologiche dei settori) si registrano soprattutto tra le piccole imprese”, è proprio “in corrispondenza di queste classi dimensionali che sembra più evidente l’importanza di un utilizzo ottimale dei fattori produttivi ai fini delle vendite all’estero”.
Insomma, il cerchio del ragionamento si chiude. Nel Mezzogiorno occorre lavorare a fondo all’ottimizzazione dei processi produttivi provando a raggiungere il punto di equilibrio tra le esigenze delle varie componenti in campo e sulla base di orizzonti di crescita condivisi. Occorre riattivare gli investimenti – pubblici, ma anche privati – e favorire l’accesso al credito delle Pmi anche attraverso il sistema extra/bancario (credit funds, per esempio, assicurazioni e cartolarizzazioni), ma entrano in gioco, inevitabilmente, nuovi modelli di relazioni industriali. In altre parole: ogni singola comunità produttiva sarà chiamata – in tutte le sue componenti pubbliche e private – a costruire un paradigma fortemente attrattivo ed auto/propulsivo in base alla capacità di esprimere valori e qualità industriale, attivando percorsi virtuosi da tutti i punti di vista: valore aggiunto, redditività degli investimenti, gettito reddituale per i lavoratori, incremento dei livelli occupazionali. Una sfida molto difficile e complessa. Ma l’unica che – in caso di vittoria – potrà assicurare un nuovo ciclo di crescita non effimero per quei territori come la Campania che sono diventati le periferie dell’Italia e dell’Europa.
ERNESTO PAPPALARDO
direttore@salernoeconomy.it

266813652014105525-1
Back To Top
Cerca