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Appare certo il tramonto grillino che alla pulsione populista aveva offerto una sponda non anti-democratica.
E adesso chi salverà Giuseppe Conte?
La questione non riguarda i suoi destini personali che, appunto, sono solo roba sua. Piuttosto è in discussione il profilo (e la collocazione) di una forza politica che ha presidiato, in termini di consenso, un’area importante e che rischia di trovarsi ad un passo dalla dissoluzione del riferimento politico.

di Mariano Ragusa

Chi salverà Giuseppe Conte? Chi lo salverà dal gioco delle correnti che attraversano il Movimento di cui è nominalmente leader? Chi lo salverà dagli intrighi di Palazzo tanto simili a quelli dell’altro Palazzo che i Cinquestelle volevano aprire come una scatoletta di tonno e del quale invece hanno scoperto il pregio della comfort zone?

Gli interrogativi riguardano, insieme, le prospettive dell’uomo e quello del M5S: gamba del governo Draghi e gamba della, al momento solo enunciata, alleanza con il Pd in chiave di costruzione del lettiano “campo largo”.

Ha buon gioco – anche comunicativo – Giorgia Meloni quando etichetta i grillini come surfisti, capaci di muoversi cavalcando l’onda e agli antipodi dei navigatori che le stesse onde affrontano ma per seguire una rotta.

Gioco polemico facile che tuttavia fotografa una realtà. Ovvero: lo stato di incertezza politica e la vaghezza programmatica nel quale da tempo il M5S è piombato. I sondaggi – per quel che valgono e certamente valgono come indicatori di un sentiment pubblico – registrano la progressiva pur lenta caduta dei grillini.

Messe da parte, un ad una, le bandiere identitarie ai quali il Movimento ha legato la sua fortuna, inevitabilmente evaporata l’auto-narrazione del presunto ruolo decisivo avuto nella acquisizione dei fondi del Pnrr, Conte in prima linea eccolo brandire il vessillo contingente della pace nella guerra tra Russia e Ucraina. Petizione di principio, moto dell’anima: non più di questo si tratta. Perché quando si plana nel concreto delle argomentazioni e delle possibilità si finisce – come è capitato – in quel disastro, innanzitutto di comunicazione, che è stata la perorazione delle armi all’Ucraina ma solo per scopi difensivi.

Di Maio, scaltro governista.

Più scaltro di tutti tra i grillini si conferma il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, vero e unico antagonista di Conte nel recinto politico del Movimento. Di Maio è l’esempio – mai dichiarato e teorizzato, è chiaro – della evoluzione dei Cinquestelle. Dalle barricate ideologiche (compreso i Gilet gialli) al più doroteo posizionamento del governismo. Presentissimo (inevitabile considerato il ruolo) anche in tv dove con azzimata assertività declina con stile notarile le linee del governo sul conflitto russo-ucraino. E’ lui l’antagonista mai esplicito e l’ostacolo più ingombrante alla carriera di Conte.

E Conte, dunque? Di quante e quali armi dispone per definire e rafforzare il suo profilo? Difficile anche solo ipotizzarlo per una personalità che è arrivata al centro della politica spuntando dal vuoto, nel quale da anni il sistema dei partiti è in sospensione, per poi adattarsi a quella sorta di “leadership del frattanto” che racconta tutta la precarietà della politica di questi anni.

Leader del “frattanto” ovvero senza visioni di prospettiva. Leader del “frattanto” che si è rivelata qualità nel garantirgli il pacifico e rapido passaggio dalla guida di un governo con la Lega ad un altro con il Pd prima che con l’avvento di Draghi fosse spedito ai box. Leadership del “frattanto” per effetto di un sistema politico ingessato perché privo di coalizioni credibili oltre che possibili.

Il campo largo e le alleanze.

E adesso chi salverà Conte? La questione non riguarda i suoi destini personali che, appunto, sono solo roba sua. Piuttosto è in discussione il profilo (e la collocazione) di una forza politica che ha presidiato in termini di consenso un’area importante e che rischia di trovarsi ad un passo dalla dissoluzione del riferimento politico e per questo pronta a lasciare la casa grillina verso i più vari contenitori politici. Tra questi certamente il Pd. E la componente del populismo duro e puro? I capi fino ad oggi nell’angolo (Di Battista) inseguono la rifondazione cinquestelle ma l’elettorato, i cittadini comuni animati da spirito anti-politico, potrebbero anche correre tra le braccia di forze che almeno il lessico populista hanno ancora interesse a pronunciare.

E c’è poi, non trascurabile, l’orientamento della nomenclatura grillina, a partire dallo stesso Di Maio, interessata a riposizionamenti in asse con la linea governista che ha abbracciato.

Conte è nel cuore di questa tempesta. Le staccionate del popolo grillino sono fragili per contenere tracimazioni. E manca una sola indicazione politica in grado di garantire che oltre la “dissoluzione” apparente prenda corpo una transizione ragionata e ragionevole del Movimento.

Forse la stagione del populismo non è finita. Anzi, la sua forza può persino riprendere vigore a causa della crisi economica generata (non solo) dalla guerra. Ciò che invece appare certo è il tramonto grillino che alla pulsione populista, e con tutti i limiti culturali e programmatici, aveva almeno offerto una sponda non anti-democratica.

Ma adesso il quadro è cambiato. Vale la pena, allora, chiedersi chi salverà Giuseppe Conte.

 

Foto Giuseppe Conte (Facebook)
Giuseppe Conte
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