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di Mariano Ragusa
Come spiegare la continuità, anche numerica (spettatori e share stellari), del successo di “Don Matteo” nel passaggio dalla figura iconica di Terence Hill a quella studiatamente “acqua e sapone” di Raoul Bova che interpreta il personaggio di Don Massimo?
Una prima risposta è nella permanenza, anche nella nuova stagione della fiction, del Don Matteo che Terence Hill ha radicato nell’immaginario collettivo del pubblico televisivo italiano. Solo evocata o esplicitamente citata ma assente dal visibile, Don Matteo-Hill resta personaggio nella narrazione. Del resto la sua uscita di scena è avvenuta per una interruzione non per una fine decretata. Don Matteo-Hill viene inviato, con una misteriosa modalità di simil-sequestro di persona, in missione in Africa per mediare la liberazione di un missionario sequestrato da un gruppo di guerriglieri locali.
La staffetta senza contraccolpi spiazzanti.
Gli sceneggiatori hanno fatto le cose perbene. La staffetta tra gli attori è solo apparentemente spiazzante. L’eroe del western-light e di altre fiction che prima di Don Matteo ne hanno esaltato il profilo di uomo d’azione, cede il campo ad un attore che in un ambito tra action legalitaria (il filone antimafia e Capitano Ultimo) e il romance anche di profondità (la serie di Immaturi ma anche la “Finestra di fronte” di Ozpetek) è anch’egli uomo votato all’azione. Anzi è nel pieno di quella condizione di vita e di lavoro (era carabiniere attivo nelle forze speciali) che riceve la “chiamata” che accende la vocazione al sacerdozio.
Non è pertanto improprio cogliere nel pur evidente salto di immaginario televisivo il filo di una allineabilità di profilo tra i due personaggi. Solo una traccia, è evidente. Perché tante e inevitabilmente sono le differenze tra Don Massimo e Don Matteo.
La fiction Rai, in particolare, e quella prodotta dal marchio Lux Vide (Matilde e Luca Bernabei, figli del mitico cattolicissimo e democristiano direttore generale della Rai Ettore) è per mission stabilizzante e rassicurante nei confronti delle tensioni del pubblico al quale si rivolge attraverso una prospettazione non moralistica del messaggio evangelico. Nella nuova serie la prima rassicurazione, è nel fatto che il salto di attori/personaggi non equivale ad un radicale capovolgimento in primis del messaggio.
Il teatro dell’Autorità.
La fiction “Don Matteo” è il teatro dell’Autorità e dei poteri costituiti: il parroco e i carabinieri, la legge positiva e la morale (generata dalla fede cristiana). Nel Don Matteo di Terence Hill il respiro religioso è prevalente. E’ un prete-detective che, come tale, valuta indizi e orienta, attraverso il fedele maresciallo Cecchini (un sempre bravo Nino Frassica) le piste investigative. La scoperta del colpevole non è il fine della sua ricerca da poliziotto. E’ piuttosto l’individuazione del criminale per incontralo (accade sempre prima dell’arresto) ed accendere in lui il percorso di ravvedimento e redenzione. La sceneggiatura se ne faceva carico includendo nelle battute del dialogo tra Don Matteo-Hill e il colpevole scoperto frasi-chiave del Vangelo.
Più uomo di legge appare invece il Don Massimo di Raoul Bova. L’approccio del confessore è denso di amorevole carità cristiana, vicinanza alla pecorella che nel delitto si è smarrita dal gregge, ma tensioni e azioni interpretative esaltano il Bova investigatore, il segugio che raccoglie prove per illuminare la verità. Deciso ed allo stesso tempo incerto è il suo passo. Lo evidenzia il continuo interrogarsi su come Don Matteo-Hill si sarebbe comportato nella situazione che gli è capitato di affrontare; lo conferma il frequente rivolgersi per ricevere consigli al suo vescovo. Anche Don Matteo si è spesso confidato con il suo vescovo ma a dare corpo al personaggio era il granitico e monumentale Gabriele Moschin. Don Massimo-Bova ha invece come proprio interlocutore Giancarlo Magalli.
Dalla drammaticità pur stemperata si salta alle note della commedia, meglio: del varietà televisivo. Indizio non secondario da considerare se si aggiunge anche l’entrata in campo, in un episodio, di Gigi Marzullo. E’ la tv che racconta se stessa attraverso se stessa per raccontare la realtà.
Il messaggio latente della santità.
Accade così che quel Teatro dell’autorità, costruito intorno a Don Matteo-Hill e in qualche modo reso gerarchico dal doppio vertice (carabinieri e parroco, Vangelo e legge degli uomini), si diluisce, con la seconda serie, nella coralità del racconto dove la cifra dominante della commedia attenua ogni centralità. Nel nuovo ciclo della fiction prendono spazio le storie private dei singoli personaggi talora sino a sovrapporsi al filo narrativo del giallo: la perpetua e il sacrestano; ma anche lo stesso maresciallo Cecchini; il colonnello Anceschi (Flavio Insinna: altro volto della tv che cita se stessa) e della stessa capitana dei carabinieri (Maria Chiara Giannetta) nella commedia romantica infinita con il pubblico ministero (Maurizio Lastrico). E tutti concorrono all’affermazione assoluta del Bene e dei buoni sentimenti sia affermandolo nell’esercizio del proprio ruolo lavorativo che in quello dei rapporti privati.
Don Massimo è parte del contesto, figura centrale ma non il fulcro fondante. Il suo personaggio si insedia in un ruolo delegato e putativo che rinvia a Don Matteo-Hill (significativo è il lapsus ricorrente nella identificazione del giovane parroco con il nome dello storico sacerdote). Don Matteo-Hill marca la sua presenza per assenza come personaggio del racconto. E’ lievitato a modello ma agisce nella narrazione della fiction. E’ come quei santi dei quali ha parlato Papa Francesco: non eroi ma persone che vivono accanto a noi; eterei eppure testimoni e guide importanti per la vita dei credenti (e non solo). E così il Don Matteo-Hill “latente” potenzia il messaggio morale del racconto e rafforza la risposta al bisogno di rassicurazione del pubblico televisivo.

Terence Hill e Raoul Bova