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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Le analisi di scenario confermano l’aumento del divario tra le aree meridionali e quelle del Centro Nord del Paese.
Convenienze attrattive? Anno zero
Sempre più evidente la mancanza di una visione di sistema. Ha preso il sopravvento un insieme confuso di provvedimenti finanziari, appostamenti e variazioni di bilancio, fondi di sviluppo che stentano a impattare positivamente sui territori.

Mentre infuria la “battaglia” sui decimali con il segno più per rendere mediaticamente roboante l’annuncio della ripresa – naturalmente da parte del Governo e dei partiti della maggioranza – appare sempre più chiaro che le regioni e soprattutto le imprese meridionali dovranno vedersela sostanzialmente da sole. Si è ormai palesato in maniera abbastanza concreta lo scenario che ci attende nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Un disegno vero e proprio – e cioè con obiettivi strategici certi e con altrettante risorse strategicamente appostate e certe – non è percepibile. E se non è percepibile significa che qualsiasi strumento sia stato reso disponibile per il Sud non è in grado di generare fiducia e, quindi, neanche la partecipazione e l’adesione dei privati. Di fronte a questa situazione toccherà ripartire al basso, con tutto quello che ne deriva dopo anni lunghissimi di crisi che hanno generato il drastico “dimagrimento” del tessuto produttivo e una dura selezione sul campo delle aziende che ora – sopravvissute – si guardano intorno per capire, prima di tutto, che aria tira al di la delle narrazioni che imperversano soprattutto sui social network. Il problema vero – giova ripeterlo – non è tanto il reperimento delle risorse (che, sebbene sempre macchinosamente attivabili, sono, comunque, disponibili nella complessa intelaiatura dei fondi europei in primis); ma la difficile opera di configurazione delle priorità per i singoli territori che decidono di iniziare a competere sul mercato delle convenienze attrattive. Che cosa sono le convenienze attrattive? Non sono altro che la capacità delle diverse aree produttive di dotarsi di un “appeal” da vari punti di vista, spingendo il pedale sull’acceleratore della collaborazione – o, più tecnicamente – del partenariato pubblico/privato. Insomma, in attesa che si chiarisca quale possa essere il filo rosso di una qualsivoglia politica industriale su scala nazionale, è del tutto evidente che ciascuno deve fare da sé. Ed è a questo punto che cascano le braccia. Ad essere benevoli bisogna prendere atto che è un dialogo quasi sempre tra sordi: un insieme confuso di provvedimenti, appostamenti e variazioni di bilancio, creazione di fondi di sviluppo. Misure che, pure, potrebbero – in una visione di sistema non generica e superficiale – stimolare un impatto certamente rilevante sia per quantità di finanziamenti che per opportunità di ristrutturazione e di crescita riservate alle imprese.
E, invece no. Tocca assistere alla solita corsa all’annuncio, alla ricerca esasperata del titolo di giornale, alla stucchevole polemica interna ai partiti e tra i partiti. O meglio ancora tra singoli politici di uno stesso schieramento o di schieramenti avversi.
Eppure, le buone notizie arrivano. Con una ciclicità, certo, scarsa. Quasi annegate nel mare immenso dell’inconcludenza generale. Ma arrivano sempre e comunque da un solo versante. Da parte di quelle aziende che pazientemente scelgono di mettersi insieme, di fare filiera, di conferire valore preponderante alle loro assonanze e non alle loro differenze. E’ in questo modo che – facendo prima tra di loro “coesione” – riescono ad imporre un disegno riconoscibile di crescita diffusa sui tavoli dove è possibile reperire finanziamenti importanti in un’ottica di virtuosità territoriale.
Possibile che mentre nelle regioni che avanzano maggiormente in termini di sviluppo (Veneto, Toscana, Emilia Romagna, Lombardia) quest’impostazione è diventata prioritaria e che dal Lazio in giù, invece, sia ancora l’eccezione che conferma la regola del “disastro” delle politiche di rilancio dell’economia? Possibile. Anzi, sicuro e certo.
E, allora, si ritorna alla casella iniziale: il lavoro paziente dal basso – che non paga nel breve termine dal punto di vista della rendita politica – non vuole farlo più nessuno. C’è troppa fretta di affermare leaderismi che per quanto localistici assicurano spesso carriere personali. C’è troppa ansia di non lasciare ad altri i risultati che naturalmente maturano dopo qualche anno. C’è troppa ostinazione nel non allargare i confini dei propri orticelli che, per quanto asfittici, fruttano ancora varie tipologie di vantaggi.
Non bisogna, quindi, meravigliarsi che buone pratiche che altrove – vedi sopra – si vanno consolidando ed aiutano a crescere aziende e livelli occupazionali, non trovano applicazione in Campania ed in provincia di Salerno. Le responsabilità non stanno solo all’interno della politica e delle istituzioni. Le poche voci lucide e consapevoli si ritrovano in brevissimo tempo isolate e catalogate alla voce “gufi” e dintorni. Ed è ancora più grave che non si comprenda come anche la fuoriuscita dalla crisi non significhi un automatico ritorno ai parametri di produttività e redditività degli anni precedenti la recessione.
ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it @PappalardoE

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