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Lo speciale »

La differenza tra il ritmo di consumo delle risorse naturali e la loro capacità di rigenerazione.
Asini, spread ecologico e debito pubblico
Con un contributo di Amedeo Trezza sul rilancio della “ciucciopolitana” e le connessioni tra cibo, nutrizione e salute. L’alimentazione come identità e cultura in relazione alla resilienza biologica e sociale (paesaggio e comunità locali connesse).

di Pasquale Persico

Qualche anno fa Claudio Tamburranno alla fiera di Rimini, Ecomondo, lanciò un grido d’allarme: lo spread ecologico è più grave di quello economico. Egli definì in maniera semplice cosa potrebbe intendersi per spread ecologico. Lo spread ecologico è la differenza tra il ritmo con il quale consumiamo le risorse naturali e quello con il quale progettiamo la loro capacità di rigenerazione. Ogni Paese ed ogni persona prelevano dal bancomat terrestre con una diversa intensità. Essa dipende – ovviamente – dal tipo e dal livello dei consumi. Se tutti si comportassero come il Qatar, le risorse che la Terra genera in un anno intero finirebbero già il 9 febbraio. Sulle pagine di SalernoEconomy da diverse settimane, e da qualche anno con i miei amici economisti e esperti di paesaggio, oggi componenti del comitato che collabora con la Presidenza del Consiglio, con riferimento particolare al settore alimentazione e salute del suolo, cerco di spiegare la differenza tra potenziale del Capitale Naturale e Capitale Naturale Disponibile perché questo concetto è vitale per definire i progetti strategici connessi al recovery  fund e agli altri fondi che l’Europa metterà a disposizione per la ripresa o rinascita dei Paesi.

Il tema degli investimenti strategici è la strada che porta ad evitare l’effetto spiazzamento connesso all’accresciuto debito pubblico, e sarà l’argomento da sviluppare nelle prossime settimane, e sarà utile ribadire con forza il tema dello spread ecologico. Non a caso torno oggi al tema pedagogico su cosa sia il paesaggio degli ingredienti e su come far penetrare l’idea che il progetto della medicina territoriale o Medicina di Comunità Aperta, debba investire su temi del paesaggio degli ingredienti, per le connessioni connesse allo spread ecologico e allo spread del debito pubblico .

Lo farò, apparentemente, in forma scherzosa, ma in effetti affronto il racconto attraverso una esperienza realizzata nel 2011 dall’Ateneo Nomade e Triangolare, quando dalla Valle degli Asini Di Pruno di Laurino (Salerno), con l’aiuto di Angelo Avagliano ed Amedeo Trezza, venne inaugurata la prima tratta della “Ciucciopolitana” del Cilento interno. L’iniziativa proponeva un percorso formativo utilizzando l’asino come mezzo di mediazione e strumento formativo e di socializzazione. Non a caso, al termine del percorso, a piedi attraverso luoghi connessi a Caselle in Pittari ed a Morigerati,  veniva conferita una cattedra – all’asino Augostino – di semiotica del paesaggio. Qualche anno dopo i concorrenti partecipanti alla nota trasmissione televisiva “L’Eredità” ebbero difficoltà a definire la data di inaugurazione di questa iniziativa perché non pensavano a un evento attuale, programmato per connettere i temi del paesaggio al riposizionamento del rurale nel contemporaneo. Poi proprio domenica scorsa, l’articolo di Gianfranco Ravasi, su Il Sole 24 ore, nel presentare il libro  “Parole Oltre” di Roberto Righetto, ha presentato una preghiera di Francis Jammes che va incontro al rilancio del progetto ciucciopolitana; La preghiera per andare in paradiso con gli Asini richiama con dolore i temi che spesso pagano gli ultimi del mondo  durante le grandi crisi provocate da guerre o pandemie, ma è anche un ricordare L’elogio dell’asino, libro di Rubina Giorgi, filosofa che ha insegnato a Salerno in anni passati.

Camminare ed apprendere i concetti legati alla connessione tra naturalità, paesaggio degli ingredienti  e salute preventiva è il percorso da proporre quando  un asino  liberato dal suo lavoro tradizionale percorre in libertà i luoghi naturali. Egli ha la capacità di segnalare le nuove erbe che la natura ci offre come nuovo alfabeto botanico che gli viene incontro. In questo senso la cattedra di semiotica del paesaggio naturale sembra un giusto riconoscimento; un “facilitatore”, durante la passeggiata, potrebbe mostrare, alle persone coinvolte nel camminare, l’archeologia dei luoghi abbandonati. Si scoprirebbe così che i segni  dei muri a secco visibili nello spazio largo, patrimonio Unesco, introducono il tema “potenziale” del paesaggio degli ingredienti ancora disponibile.

Il percorso nelle aree del Cilento interno potrebbe attrarre  i credenti  e i non credenti. I primi, oltre alle indulgenze guadagnate con le preghiere già fatte durante il periodo di io resto a casa, possono imparare e praticare la preghiera per andare in Paradiso con gli asini, ma anche i non credenti – specie tutti i miei amici esperti di economia e di politica economica – si soffermerebbero sul concetto di potenziale del capitale naturale, perché dobbiamo (tutti insieme), con altre discipline, tracciare il possibile quadro di investimenti strategici da poggiare nelle macroaree ecologiche dell’Italia (Europa Euromediterranea).

Nei prossimi mesi verranno discussi i metodi di valutazione delle scelte sugli investimenti strategici europei, connessi alla diminuzione dello spread ecologico e dello spread del debito pubblico: a buon intenditor poche parole.

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Perché il rilancio della Ciucciopolitana e le connessioni tra cibo, nutrizione e salute.

di Amedeo Trezza

Questa riflessione sul rilancio della ciucciopolitana rilancia e centra perfettamente il tema dell’alimentazione come identità e cultura in relazione alla resilienza biologica (nutrizione come medicina preventiva) e a quella culturale e sociale (paesaggio e comunità locali connesse). È esattamente l’idea di linguaggio del cibo e del territorio che mi ha convinto, anni fa, a lavorare prima accademicamente a Napoli sul paesaggio come sistema culturale di segni e identità sociale e, poi, a sperimentare sul campo in Cilento il linguaggio del cibo connesso alla produzione e alla trasformazione naturale a ciclo breve e chiuso sul posto. Mi appare sempre più chiaro che un territorio abitato e coltivato da una comunità si trasforma da dato materiale naturale in paesaggio culturale come espressione della interazione (inscrizione) dell’uomo sul territorio. In altri termini si potrebbe dire che l’uomo, quando riesce a stabilire un equilibrio dinamico bastevole tra se stesso e gli altri esseri viventi nel contesto naturale di riferimento, non fa altro che intercettare e decodificare il potenziale della natura, riconoscerla come soggettività (che molto spesso ha una velocità di risposta adattiva a scenari inattesi maggiore di quella dell’uomo) e dialogare fertilmente con essa (ibridandosi) ma senza intaccarne la riserva stessa di quel suo potenziale. Quando ciò accade si compie un gesto eco-logico nel senso più profondo del termine, dove lo scarto, la scoria, il rifiuto non esiste più perché la sua presenza, se ci fosse, sarebbe solo effetto di un errore di progettazione: si compie così l’economia circolare vera e propria (quindi propriamente sostenibile). Ma la sostenibilità può celare nelle sue pieghe anche una sfumatura di senso che può suggerire l’idea di piattezza come mantenimento di uno status quo, un sistema a bassa entropia, statico, o addirittura retrocedente. Sarebbe l’errore del paradigma della decrescita. Direi, quindi, anche qualcosa in più, che questo sistema può e deve essere invece bastevole, cioè orientato ad una crescita felice, poiché qui si crea un surplus in termini culturali e sociali senza aver consumato irreversibilmente stock di capitale naturale ma avendo al contrario moltiplicato saperi e connessioni per una civiltà plurale.

Ora, questo territorio reso così paesaggio, attraverso la sua culturalizzazione – potremmo dire – e la sua colturalizzazione – nel senso di messa a coltura delle sue terre – a sua volta ci restituisce della materia trasformata codificata in “cibo”. Ecco cosa significa per me paesaggio degli ingredienti: il cibo come dato materiale, esito di un processo, prodotto di una interazione uomo/ambiente diventa ingrediente non solo di una ricetta gastronomica ma in senso lato anche di una ricetta medica e in definitiva, per estensione, per una più ampia ricetta sociale di benessere condiviso. Qui sta tutto il tema della cucina e della dieta mediterranea come medicina preventiva, la quale è da intendersi sia in termini ontogenetici (mangiar sano previene le malattie dell’uomo come singolo durante la sua vita) che in termini filogenetici (produrre e mangiare sano per una popolazione residente significa preservare e modellare un patrimonio genetico durevole e bastevole in termini di predisposizione alla longevità dell’uomo come popolazione in un orizzonte storico-temporale più ampio).

Stando così le cose, assistiamo adesso ad una sorta di “restituzione” del cibo all’uomo nei termini di una interazione di ritorno dal cibo (come precipitato del dialogo tra la soggettività dell’uomo e la soggettività della natura) verso le comunità residenti che quel territorio abitano. Possiamo dunque parlare di un secondo tipo di inscrizione: prima abbiamo visto l’inscrizione dell’uomo sul territorio che lo trasforma in paesaggio, mentre ora assistiamo ad una sorta di inscrizione dell’ambiente attraverso il cibo nella genetica di una popolazione residente. Si tratta allora di una doppia inscrizione biunivoca: uomo-territorio in paesaggio ed ora invece del paesaggio (attraverso il cibo) sulla salute dell’uomo e, in tempi lunghi, sulla sedimentazione di alcune caratteristiche (metaboliche, comportamentali ecc.) nel suo patrimonio genetico.

La corrispondenza tra il patrimonio paesaggistico ed il patrimonio genetico di una comunità residente è proprio la scommessa di resilienza di una comunità organica, corrispondenza che avviene precisamente attraverso la saldatura dei due paesaggi di cui sopra ad opera del patrimonio agro-alimentare (in termini di biodiversità autoctona e di pratiche colturali sedimentate) della comunità di riferimento, patrimonio che viene culturalizzato nella pratica trasformativa enogastronomica dei prodotti in cibo attraverso il saper-fare della cucina (ricette).

È evidente quindi come tale pratica trasformativa enogastronomica sia strettamente interconnessa col rapporto tra il paesaggio degli ingredienti (derivante da unità organiche di paesaggio produttivo e identitario) e il paesaggio genetico (come emersione degli isolati genetici presenti in una popolazione data su di uno specifico territorio di riferimento).

Questa connessione di natura derivativa (nel senso di deduttiva) del patrimonio enogastronomico di comunità col paesaggio degli ingredienti e di natura generativa (induttiva) col paesaggio genetico, è ancora più densa di significato se teniamo in considerazione l’importanza della coerenza tra territorio espresso in termini di produzioni identitarie e consumo di quelle stesse produzioni da parte della medesima popolazione che vi abita.

Per l’uomo essere presente con la mente e con il corpo nel contesto naturale e culturale in cui abita significa non solo esprimere quel territorio in termini culturali e identitari, riconoscendo dal punto di vista cognitivo il paesaggio in cui opera e abita come proprio contesto culturale di riferimento, ma significa anche connettere il “secondo cervello” dell’uomo, l’intestino, e, quindi, tutto il corpo, al contesto di riferimento. Come sappiamo, il microbiota dell’uomo è composto da miliardi di microrganismi ambientali che convivono in simbiosi col nostro corpo il quale, a sua volta, fa parte dell’ambiente. Gran parte di questi microrganismi sono “buoni” o “neutrali” e la convivenza di essi con quelli “cattivi” che vengono così tenuti a bada, mai sconfitti ma messi in condizione di non nuocere o di nuocere poco, è la cifra della resilienza biologica (e alla lunga genetica) del nostro super-organismo in relazione all’ambiente.

Che il cibo prodotto e trasformato provenga dallo stesso posto in cui l’uomo vi abita è molto importante per stare in salute e per saldare il rapporto tra uomo e territorio: mangiare il proprio paesaggio significa essere paesaggio. Farsi nutrire dalla terra che si abita connette ancor più intimamente il corpo e la mente dell’uomo col contesto ambientale di riferimento, lo rafforza e lo aiuta a sviluppare il proprio microbiota attraverso quei microrganismi autoctoni già presenti in quel luogo. Aumenta pertanto la salute, l’aspettativa e soprattutto la qualità di vita perché aumenta la resilienza biologica e le risposte immunitarie.

Pensiamo ad esempio ad una comunità produttiva che si nutre prevalentemente dei prodotti che l’area vasta in cui abita gli offre e vediamo quanto è importante l’equilibrio (di cui beneficia) tra il contesto biologico ambientale in cui abita e il proprio microbiota, rispetto a popolazioni che al contrario non conservano alcun legame organico col bios che li circonda e si nutrono di world food proveniente da ogni angolo del pianeta tranne magari che proprio del loro territorio, oppure solo in minima parte del loro territorio (con l’impronta ecologica che tale comportamento scellerato comporta in termini di aumento del debito ecologico contratto anche a causa dell’agroindustria cosmopolita).

Oltre ad essere una pratica identitaria con ricadute non solo culturali ma anche affettive, nutrirsi dei prodotti e delle materie prime del luogo in cui si vive crea coerenza anche biologica e continuità generativa tra soggettività dell’uomo e soggettività della natura: l’uomo che ha creato il paesaggio, mangiando il paesaggio (le sue uve, i suoi grani, i suoi orti, ecc.) diventa esso stessoparte del paesaggio, segno di quel testo paesaggistico complesso di cui allo stesso tempo è artefice e umile tassello.

 

 

 

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Pasquale Persico
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