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Il cambiamento delle dinamiche economiche e sociali impone la rivisitazione degli “schemi” di progettazione dello sviluppo.
Area Vasta e città “plurali”
“Occorre lavorare per creare spazi di rottura degli attuali confini culturali e disciplinari. E’ necessario che si affermi una nuova soggettività territoriale nell’ambito della cosiddetta seconda globalizzazione (territori resilienti con vantaggi competitivi localizzati, sia in termini di potenziale creativo, che di autonomia strategica).

diPasquale Persico* La domanda dalla quale partire per entrare nel cuore del cambiamento in atto a livello economico e sociale è la seguente: quali città coltivano ancora le virtù civiche intese come vantaggio competitivo dell’area vasta? Nel processo di urbanizzazione in atto si afferma , invece, la cultura della separazione: un agire che ignora o finge di ignorare che qualsiasi trasformazione incide sull’ambiente in senso lato strutturando il territorio in senso opposto a quello biologico, rompendo il nesso Architettura-Infrastruttura- Paesaggio- Ambiente – Appartenenza – Territorio (AIPAAT).
Il concetto di Area Vasta è un concetto che rivisita il paradigma del confine a partire da quello amministrativo e fa riferimento al postulato di città o di densità territoriale (che chiameremo ancora città) individuabile all’interno di uno spazio allargato multi/scalare. Uno spazio di rottura degli attuali confini culturali e disciplinari che ci fa entrare con una nuova soggettività territoriale nell’ambito della cosiddetta seconda globalizzazione (territori resilienti con vantaggi competitivi localizzati, sia in termini di potenziale creativo, che di autonomia strategica) La nuova visione della città delle reti e delle infrastrutture cambia la dimensione della città e rende difficile o improbabile riconoscere elementi di riferimento dell’appartenenza alla nuova aggregazione geografica .
Lo stesso concetto di “Smart city” sembra la nuova panacea, ma esso appare mitigare o aiutare il desiderio di riterritorializzare l’urbano, senza la cognitività sufficiente per re- immettere il concetto di città, di civiltà, di urbanità, e voglia di futuro nella nuova soggettività urbana ad antropologia plurale nell’area vasta.
Il concetto di area vasta implica, quindi, una capacità multi/scalare della governace territoriale, delle imprese e delle organizzazioni, che superi l’attuale regolamentazione del costruire spazi urbani e tessuti territoriali perché le attuali patologie urbane, così intrecciate e complesse, impongono mutazioni sostanziali e la somma di edifici o spazi sostenibili non produce sostenibilità sociale e quella ambientale ha scala diversa che ha poco a che fare con gli ingredienti (edifici e piazze), mentre ha molto a che fare con la sostanza (ecologia del paesaggio).
Non si vuole affermare che una rete di luoghi a condensazione sociale intelligente (Smart City)non agisca sul costruito come luoghi/laboratori di apprendimento per dare senso all’urbano e generare spazi in rete di nuova urbanità;ma occorre poi fare riferimento alla scala di competitività territoriale a cui questi processi devono appartenere: aree metropolitane o “altra città” (città diffusa o policentrica).
Per l’Italia perfino le prime città d’Italia perdono peso e posizioni, e solo Milano ha residenti equivalenti ( cioè residenti temporanei legati alle attrazioni creative della città, università, stage, lavori temporanei, apprendimenti temporanei, etc) che non sono trascurabili.
In definitiva il centro di gravità si risposta, quasi a volere tornare anche nei luoghi che fino al 1500 erano stati protagonisti: verso l’Asia con la variante di altri Paesi emergenti (BRIC e nuovi paesi).
Ed allora cosa devono fare le città metropolitane, le aree vaste e le città intermedie del territorio italiano in questo nuovo scenario nazionale ed internazionale?
Le città organizzate nella rete delle città strategiche, le città metropolitane e le città dei territori complementari sono chiamate ad un salto di scala nella gestione e nella ideazione di nuovi piani integrati urbani e non urbani.
I fondi europei chiamano ancora una volta tutte le città e la loro capacità di rappresentare l’Italia a guardare dentro la metamorfosi necessaria. La nuova programmazione dei fondi pensa alle città come motore di sviluppo e di cambiamento per interpretare il salto di scala necessario ai temi della sostenibilità, della innovazione e della inclusione sociale ed economica dei territori.
Ecco il perché non è possibile parlare di città senza parlare di “altra città”, cioè dei territori che appartengono al paesaggio della città come identità irrinunciabile a cui far riferimento anche perché da questi territori dipende la dotazione dei servizi ecologici della città, (vedi acqua, rischi ambientali etc).
Devono pertanto essere messi in discussione le vecchie terminologie parziali( città e periferie, città e campagna, parchi urbani, aree interne, etc) e tentare un ricucitura delle frammentazioni urbane e non urbane in termini di paesaggi resilienti e/o a sostenibilità profonda, misurando la qualità dell’abitare e del produrre in termini di nuova urbanità civica , plurale e dell’ambiente,
La lezione di Camus è chiara: probabilmente solo la nascita di cento città metropolitane o reti di città inclusive potranno affrontare il tema della inclusione a scala adeguata. Prima o poi saremo in grado di azzerare l’inquinamento nell’urbano ma rimarrà forte il tema dell’abbandono della città compatta e della dispersione dell’urbanità: non si potrà non avere un riferimento di area vasta per tessere reti di città a forte condensazione sociale.
Per Walter Santagata, amico e studioso dell’Università di Torino, scomparso pochi anni fa, paesaggio, città e sviluppo stavano dentro gli stessi paradigmi da coniugare.
L’industria creativa del terziario manifatturiero attinge a patrimoni culturali di area vasta, la visione strategica delle città metropolitane e di Roma in particolare, che interpreta la metamorfosi necessaria, non potrà fare a meno dell’altra città quella della conoscenza e della ricerca.
Purtroppo però siamo ancora pieni di progetti e non di processi avviati, c’è un deficit di formazione in termini di cultura di città e di cultura dell’altra città (le aree interne sono viste ancore come aree residuali nonostante che le montagne e le colline siano a vista d’occhio ed hanno nomi diversi)
Deve nascere una nuova cultura di città generativa e rigenerativa; deve essere individuata una nuova antropologia del tessuto connettivo di riferimento per poggiare – su nuove comunità a forte rappresentanza – la responsabilità di produrre fiducia e cooperazione, reti e network, realizzare piani di vita pieni di nuova urbanità e di innovazione sociale ed economica.
La cultura, la ricerca e le competenze chiudono il cerchio e sono il feedback che torna alla comunità che l’ha generata per la revisione delle aspettative.
Apprendere ad apprendere è il nuovo modello per far crescere il potenziale, sapendo che nella globalizzazione l’innovazione spesso è già obsoleta e l’orizzontalità dei processi di aggregazione deve essere riconosciuta come nuovo processo di governance indispensabile, mentre la spending review deve essere occasione e non bastone tra le ruote della nuova velocità dei processi. Per passare dalla pianificazione strategica per progetti (prima tornata dei piani strategici da spazzare via) a quella generativa e rigenerativa di processi occorre costruire laboratori membrana cioè laboratori in grado di allargare continuamente i confini dell’approccio inclusivo per dare densità al processo-progetto per non rischiare l’obsolescenza (fuori mercato e fuori contesto sociale ) del manufatto o del soft urbano realizzato.
L’apertura dei laboratori membrana nella aree metropolitane deve coltivare l’ambizione di eliminare pareti tra le istituzioni di governance territoriale, e tra queste e le imprese e le associazione di interessi, fino a proporsi come portatori di cuciture e ricuciture dei territori frammentati; questi chiedono di risalire nella scala della produzione di valore territoriale per ribadire che accanto al valore economico del territorio vi sono anche altri valori.
* Economista

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Pasquale Persico
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