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Il virus e la retorica della memoria tra rottamati e “quotati”. Le domande inevase poste dall’epidemia.
Anziani, il vero welfare senza compassione
Si dovrà ridiscutere, e seriamente, di politiche sociali. Non servono più o meno strutturate strategie della compassione, ma iniziative che ancorino alla cura delle persone. E’ necessario un grande salto di dignità e di civiltà.

di Mariano Ragusa

Serviranno intelligenza e pazienza. Servirà ridare il nome alle cose perché, di queste ultime, percepiamo una mutazione. Servirà liberarci dei nomi che poco definiscono ma anche di quelli che, nel tempo della vita sospesa per l’assedio del virus, abbiamo utilizzato ritenendoli (malamente) adatti a mettere in ordine l’incertezza nella quale ci muoviamo. Su una (ma non unica) parola il nostro compito sarà gravoso e decisivo: vecchiaia.

L’epidemia ce l’ha restituita come sinonimo di morte. I vecchi, con la loro morte, hanno esposto al massimo grado di rappresentazione simbolica il flagello del virus. Le cifre degli “scomparsi” li collocano nelle fasce alte delle burocratiche classifiche del lutto. “I più fragili e i più indifesi”, hanno spiegato gli scienziati attestando sulla condizione biologica la permeabilità assassina del contagio. “Con loro va via una parte importante della memoria del Paese”, hanno osservato saggi e dolenti pensatori compiendo il salto simbolico dettato dall’anagrafe e dal calendario, per collegare non da ultimo quei pezzi di memoria scomparsi anche con il tempo celebrativo del 25 Aprile. Partirà dai vecchi, allora, l’elaborazione pubblica del lutto che il virus ha seminato? Può darsi che accada. Ed è auspicabile, anzi, che accada.

Elaborare il lutto.

Resta da intendersi sul senso di quella elaborazione. Inutile, e persino atroce, sarebbe se tanto sforzo si concludesse in una monumentalizzazione del ricordo. C’è chi lo ha immaginato. Più utile, dignitoso, necessario e rispettoso per quelle vittime, sarebbe immaginare che l’occasione funesta generi un rapporto diverso del paese con la sua memoria e con i suoi vecchi. Con quelle persone che a vari livelli e forme sono custodi del grumo di valori, esperienze ed immaginazioni dal quale abbiamo mosso i passi per andare oltre nelle nostre vite.

I vecchi non chiedono di essere trasformati in simbolo. I vecchi – lo fanno i sopravvissuti nel nome degli scomparsi – chiedono di essere considerati memoria vivente. Una realtà, un patrimonio di umanità, tutto dentro la trama della quotidianità sociale. Sanno bene, i vecchi, quale pretesa accampino affidandoci quella richiesta. Sanno, i vecchi, di essere anche un problema. Sanno, quando le forze cominciano a mancare, come diventino un peso per le proprie famiglie. E sanno persino, quando i malanni non li vulnerano, quanto possano diventare fastidiosi per quelle stesse famiglie nel loro non inusuale voler mettere bocca, pretendere di insegnare la vita, far prevalere l’esperienza come certificazione di saggezza e persino di infallibilità dei consigli che dispensano. I vecchi sono anche questo. E anche così sono memoria preziosa per tenerci ancorati a una vita che non è chiusa nell’oggi. Memoria esigente, destinataria di attenzione, cura e di ascolto.

La persona e la cura.

Quale è stato il rapporto che questo Paese, a partire dalle sue reti familiari, ha stabilito con i vecchi? Il virus, che ne ha fatto strage, ci induce ad una riflessione che vada oltre la commozione, oltre le mappe geografiche disegnate dall’epidemia e lontani dal desiderio di fabbricare icone.

L’epidemia ha messo in primo piano la situazione delle Residenze per anziani (Rsa). Sono al centro di una trentina di inchieste giudiziarie. Sono state i focolai più devastanti della pandemia. Errori, irresponsabilità, cinico calcolo o atroce casualità? La magistratura farà luce. Varrà per le famiglie che hanno patito quelle morti. Varrà per l’intero Paese se aiuterà ad illuminare (per cancellarle) eventuali storture del suo sistema di assistenza agli anziani.

Ma le Rsa sono la punta emersa di un iceberg nel quale si raccoglie la popolazione vecchia uscita dai condomini della vita per approdare in Case-riposo o in quelli che un tempo si chiamavano ospizi. Bisognerà interrogarsi sulla qualità di quelle strutture e se siano in continuità o non piuttosto in resezione con la vita di “fuori”. Se cioè anche da “allontanati” sopravvive una rete di relazioni che non è solo la visita periodica delle famiglie ma percorsi inclusivi (laddove possibile) nelle vite delle comunità. E discorso di non minor peso andrà affrontato per i tanti anziani che in condizioni di autosufficienza portano avanti i loro giorni nelle proprie abitazioni o in quelle delle famiglie di appartenenza.

Il lavoro dell’assistenza

Dati che fotografano questa situazione ce ne sono a iosa. Sarebbe il caso di rileggerli ed aggiornarli con l’attenzione mirata al compito che l’epidemia, tra gli altri, ha iscritto nelle agende dei decisori politici: il ridisegno e l’arricchimento delle politiche di Welfare contemperando risorse (certamente da aumentare), estensione dell’inclusione sociale, efficacia delle prestazioni.

Significa anche, su questa scia, determinare opportunità di occupazione per chi con professionalità e affetto in questo settore può operare. Significa regolarizzare anche le posizioni dell’esercito di badanti che continuano a rappresentare una domestica protezione civile per tante famiglie. Regolarizzare vuol dire spingere alla fuoriuscita garantita dal sommerso anche attraverso incentivi e sostegni alle famiglie beneficiarie delle prestazioni delle badanti. Senza tralasciare, anche come prezioso tonificante civico, il coinvolgimento in maniera strutturata di quel volontariato che ha fatto la sua parte anche nei giorni della pandemia. Un esempio semplice per intenderci. Perché non favorire la nascita di cooperative giovanili che abbiano in carico il compito di effettuare e consegnare la spesa a domicilio o sbrigare faccende alle quali gli anziani non possono dedicarsi?

Gli obiettivi.

Per quanto impegnativi e faticosi, questi obiettivi sono solo una parte dell’impegno. L’altra, quella più spinosa, è di carattere civile e, in qualche modo, culturale. Prospetta la ricostruzione del rapporto umano e sociale con il mondo dei vecchi. Non si tratta di implementare le piccole isole dell’apartheid fatta di circoletti, bocciofile di quartiere per dare un approdo extra domestico alla solitudine dei vecchi. Anche questo.

Decisiva sarà la relazione anche simbolica con questa generazione, la capacità di includerla come voce nel racconto sociale nel quale prende forma una comunità. Significa tirare un ponte, fatto di eventi, modi di convivenza e pratiche sociali, che li leghi alle scuole e alle parrocchie dei quartieri dove non sentirsi solo utili ma soprattutto necessari. Saremo capaci, in questo modo, di attingere concretamente a quel “prezioso serbatoio di memoria”? Saremo capaci di costruire comunità che si riconoscano anche attraverso i propri vecchi?

Rottamati e “quotati”.

La commozione dei questi giorni porterebbe tutti a risposte affermative e dense di edificante buona volontà. La consapevolezza che possa essere questa la via da intraprendere, deve però scontrarsi con un sentimento (se non addirittura una cultura) di massa che sopravvive alla lontana parola d’ordine della “rottamazione”. Si vive e si lavora fino ad un certo punto. Poi, stop. Via dal campo di gioco ma neanche accomodandosi in panchina. Via, rottame. E tanti saluti. Ma poi perché – tanto per segnalare il paradosso – a quelle panchine si è dovuto guardare per rafforzare gli organici dei medici chiamati alla prima linea della lotta contro il Covid?

Quel sentimento diffuso ha conosciuto dopo la rottamazione un’altra variante narrativa. Si chiama “Quota cento”. Prescindiamo, nell’ordine del discorso che si va qui tessendo, da valutazioni sulla validità economica e funzionale del provvedimento. Vale rimarcarne invece l’aspetto simbolico. Se la rottamazione era la parola del furore nuovista, della pulizia del campo per chiamare all’opera energie vitali, “Quota 100” si è incaricata in termini più prosaici e ragionieristici di imporre la misura dirimente tra utile e inutile, funzionale e improduttivo, risorsa e spreco, opportunità e fallimento.

In entrambi i casi è circolata nelle menti della nostra società, l’idea di una rottura necessaria se non obbligatoria per assicurare opportunità (di lavoro, in primis) e prospettive. Il futuro contro il passato. Il passato come ostacolo al futuro. Lo hanno definito rottura del patto intergenerazionale, salvo poi accorgersi che in moltissimi casi quel passato ingombrante era, tra pensioni e risparmi, un puntello economico per quel futuro che sbilenco cerca di farsi strada.

Si dovrà ridiscutere, e seriamente, di politiche sociali. Non servono più o meno strutturate strategie della compassione ma politiche che ancorino alla cura delle persone, le variabili economico-politiche della nostra società. Sarebbe un grande salto di dignità e di civiltà. Basterebbe, se non altro, a risparmiarci l’inutile ed autoassolutoria commozione per la memoria perduta.

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