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Il processo già avviato ha subito un'accelerazione improvvisa a causa della pandemia.
Smart working, troppe speculazioni
Dopo l'emergenza sanitaria è il tempo di scegliere - tra le tante cose - anche la corretta “declinazione” del rapporto di lavoro . Il pendolarismo impatta sulla mobilità urbana e sul sistema metropolitano di sviluppo, sulle funzioni residenziali e quelle degli uffici, sulle infrastrutture di connessione e sulla digitalizzazione.

di Virgilio Gay*

Quando Tomasi di Lampedusa fa dire a Tancredi: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” non esprime soltanto il senso italico della classe dirigente che si apre alle innovazioni per conservare proprie guarentigie, ma afferma il senso strumentale di governare processi di distruzione creativa (alla Schumpeter) per trarne vantaggi, soprattutto politici. L’attuale dibattito sullo smart working vede contrapposti coloro che ne sostengono il prosieguo, nella speranza di guadagnarsi le simpatie di dipendenti pubblici e privati (Movimento 5 Stelle), e coloro che spingono per un ritorno in sede, al fine di consentire la ripresa dei consumi e dei pasti fuori casa. In effetti, tutte posizioni strumentali che non tengono conto del vero problema: i risultati quantitativi e qualitativi del lavoro svolto a casa. L’unica voce in tal senso è quella del presidente dell’Ance, che denuncia ritardi nel rilascio di certificazioni necessarie per la partecipazione ai bandi e l’impossibilità di avere un contatto diretto con i responsabili dei procedimenti. Cerchiamo, quindi, di fare chiarezza. Si parla di smart working, ma si tratta di lavoro svolto a casa. Perché il termine smart working o lavoro agile sta a indicare il lavoro svolto senza vincoli spaziali, oppure di orari, che implica una organizzazione per fasi, cicli e obiettivi non essenzialmente di tipo lineare. Per cui la prestazione non dovrebbe avere connotazioni di output, bensì di outcome. Dal lato del datore di lavoro ne deriva la necessità di nuove forme organizzative e conseguenti aspetti dirigenziali e di leadership. Dal lato del lavoratore, una migliore conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di vita, maggiori responsabilità e orientamento produttivo. Di tutto questo sarebbe necessario discutere. Non di altro.

Il processo da tempo avviato ha subito un’accelerazione improvvisa a causa della pandemia; ma come accade quando si accelera, il rischio che si corre è quello di uscire di strada. Un rischio che il Paese non può permettersi. Sia per l’enorme ritardo nella produttività rispetto ai competitor, sia per l’impatto dei servizi, soprattutto quelli pubblici, sulla competitività generale dell’intero sistema produttivo. Senza dimenticare che le dinamiche salariali sono direttamente dipendenti dalla produttività e scontano già l’incidenza del cuneo fiscale. Per cui sarebbero auspicabili interventi che favoriscano forme di detassazione e decontribuzione del valore aggiunto marginale, ottenibile con l’evoluzione smart (in questo caso intesa come intelligente) della prestazione lavorativa.

Il problema resta politico, ma questa volta dipende anche dalla capacità manageriale dei dirigenti. Troppe volte selezionati secondo criteri di appartenenza, oppure, quando va meglio, per una progressione verticale di carriera che sconta l’effetto del principio di Peter: “In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello d’incompetenza”. Così sarebbe opportuno immaginare sviluppi orizzontali di carriera e benefit non solo economici.

In tal caso, lo smart working (inteso nella sua accezione di eleganza) potrebbe anche rappresentare, a parità di diritti e remunerazione, una sorta di livello meritocratico conseguibile. D’altronde, non tutti hanno quella maturità organizzativa per gestire, al meglio, l’autonomia necessaria per lavorare in modo smart (in questo caso nel senso della sua brillantezza).

Dopo l’emergenza sanitaria è il tempo di scegliere, tra le tante cose, anche la corretta declinazione della prestazione lavorativa. Il pendolarismo impatta sulla mobilità urbana e sul sistema metropolitano di sviluppo, sulle funzioni residenziali e quelle degli uffici strutturati, sulle infrastrutture di connessione e sulla digitalizzazione. Non si può “ingessare” il Paese per difendere rendite di posizione derivanti da rendite immobiliari. La ristorazione e il commercio, in generale, devono rivedere i propri modelli di business, adeguandoli ai nuovi scenari competitivi. Giacché per troppo tempo si sono basati sulle stesse tre regole dell’immobiliare: location, location, location. Serve una loro evoluzione in imprenditori della ristorazione e del commercio.

In campo politico serve una visione generale e sistemica di sviluppo, ma ciascuno dovrà fare la propria parte, mettendosi in gioco. Ricordiamoci che il termine competere deriva da “cum potere” ovvero andare tutti nella stessa direzione.

*Esperto di marketing territoriale

 

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