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(Mini) Glocal. Il Pd, il nuovo corso e l’ombra dei vecchi feudi

di Ernesto Pappalardo

Il Pd riparte? L’onda delle primarie sortisce i primi effetti positivi, ma soprattutto emerge la voglia del “popolo di sinistra” – che esiste, a dispetto di facili archiviazioni in primo luogo da parte delle precedenti gestioni del partito – di ritrovare una casa con determinate caratteristiche culturali. A cominciare dal postulato sostanziale: tra capitale e lavoro l’orientamento principale resta la tutela del secondo e non del primo, pur mettendo in campo ogni strategia possibile per realizzare una politica coesiva (ma prim’ancora inclusiva). Come pure la strada della concertazione finalizzata al recupero sul versante cruciale della produttività rientra pienamente in un partito modernamente di sinistra (o anche di centrosinistra). Insomma, l’effetto-Zingaretti è ben identificabile alla luce di una lapalissiana constatazione: il Pd resta prioritariamente attrattivo per il lavoro, non per le rendite. Tra abolizione dell’articolo 18 e anatemi sui sindacati e le parti sociali (che, in ogni caso, non possono restare fermi nell’ambito di un processo già in atto dal basso in termini di ridefinizione della  nuova identità delle rappresentanze) si era perso per strada addirittura il Dna alla base della strutturazione fisica del Partito Democratico.

Ma, ora, inizia la parte più difficile. Deve cambiare tutto? Senza dubbio. Ma dietro Zingaretti già si legge il profilo di feudi e feudatari che – ovviamente – non hanno alcuna intenzione di farsi da parte. La vera sfida del “nuovo” Pd è proprio questa del rinnovamento interno. Difficile essere ottimisti. Ma questa volta, forse, è l’ultima chiamata per il cambiamento.


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