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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Se si tirano le somme a più ampio raggio, è stato superato il picco del primo dopoguerra (1920), 159,5%.
Mentre il debito “viaggia”, nessuno prova a tirare il freno
E prende sempre più forma il principio ben noto nel circuito del Mezzogiorno, che ha un solo elemento tracciante: la sopravvivenza per rimanere in piedi e continuare a recitare un ruolo ad alto rischio di azzeramento.

Chissà se poi il mondo saprà
di stare sospeso nel cielo
senza un filo, senza un gancio
nel suo colore d’arancio,
strinato e soffuso da un velo
di nuvole azzurre e lillà.
Io credo che non lo sa.”.
(Dalla poesia “Chissà” di Alfonso Gatto)

E’ sempre meglio, quando è possibile, provare a fare qualche calcolo per rendersi effettivamente conto – oltre tutte le “rassicurazioni” che, pure, si susseguono quotidianamente – di come siamo, in realtà, messi. Il debito pubblico made in Italy, è stato recentemente annunciato, ha, ormai, superato la quota di 2.680 miliardi di euro. Si tratta di un aumento pari a quasi il 160% nel 2021, ma è considerato “sostenibile” perché i tassi di interesse sono bassi e si prevede una ben delineata ripresa della crescita economica. Il Fondo Monetario Internazionale esprime queste riflessioni, evidenziando l’aumento del debito pubblico mondiale dopo che sono stati stanziati 14.000 miliardi di dollari per rispondere all’ondata pandemica. E secondo il Fmi il debito dell’Italia è cresciuto dal 134,6% del Pil nel 2019 al 157,5% nel 2020. Ovvio che nel 2021 sia destinato ad aumentare ancora, attestandosi al 159,7%, evidenziando un peggioramento, se si considera la stima di ottobre 2020 pari al 158,3%. Se si tirano le somme a più ampio raggio – dal punto di vista cronologico – è stato superato il picco del primo dopoguerra (1920): in quegli anni il debito pubblico aveva toccato il 159,5%.

Se ci concentriamo, invece, sulle dinamiche del Pil, le previsioni contenute nel Def disegnano una crescita del 4,8% nel 2022, del 2,6% nel 2023, dell1,8% nel 2024. Sempre che si archivi in maniera stabile l’epidemia attraverso un’approfondita somministrazione dei vaccini. In questo caso le previsioni governative fanno riferimento alla diffusione del siero all’80 per cento della popolazione entro il prossimo autunno. Nel caso non si verificasse questa ipotesi – principalmente a causa delle varianti del virus – ne risentirebbe la crescita del Pil che si attesterebbe, per quest’anno, al 2,7%.

Va aggiunto che in un anno i depositi in banca sono cresciuti di 135 miliardi e, intanto, si avverte una lieve risalita del costo dei mutui.

Fin qui il racconto, estremamente chiaro, dei numeri. Perché è bene tenere presente in quale bolla ci siamo infilati e quale sarà lo sforzo necessario per uscirne non solo bene, ma anche con uno slancio diverso da quello che avevamo prima, molto lontano dall’immaginare prospettive in sintonia con la crescita globale. Ed è sempre questo il problema di base, che permane, senza eccessive fibrillazioni, nei vari contesti economici del nostro Sud. Si avverte, ancora, la sensazione che non si punti, in larga parte, a inseguire – come si dovrebbe in un momento altamente strategico – una nuova stabilizzazione in termini di miglioramento dell’efficienza produttiva e della capacità competitiva con i mercati di tutti il mondo. No, in molti casi, si assiste al principio di una “lotta” ben nota nel circuito del Mezzogiorno, che ha un solo elemento tracciante: la sopravvivenza per rimanere in piedi e continuare a recitare un ruolo ad alto rischio di azzeramento.

L’ipotesi che questa prospettiva possa orientare la “ripresa” in un’area del Paese che ha, invece, bisogno di una vera e propria rinascita, è molto diffusa. La situazione dovrebbe essere monitorata con attenzione, per non sprecare risorse e per evitare iniziative non in grado di portare benefici alle imprese e, in primo luogo, ai lavoratori.

Ma sembra che nessuno avverta che il pericolo incombente da evitare sia proprio questo.

Ernesto Pappalardo

direttore@salernoeconomy.it

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Soldi appesi a un filo
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