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I numeri dell'economia »

La proposta del segretario del Pd Enrico Letta - costituzione di un fondo di sostegno ai giovani diciottenni - ha innescato una grande discussione.
Le tasse sui ricchi, gli spot e le disuguaglianze vere
I numeri recano con sé un tema di giustizia sociale, si pone il problema della riformulazione di un nuovo patto di cittadinanza. Lealtà e legalità, da questo punto di vista, diventano sinonimi. E’ la politica: guerra di messaggi, occupazione a termine del campo mediatico, che nessun competitor lascia immune.

di Mariano Ragusa

La tesi oppositiva non ha evitato di scivolare in una improvvida sgradevolezza: “Con quei diecimila euro i giovani compreranno la droga”. E non che ha proferir parola sia stato un truce moralista ma un moderato esponente parlamentare di Forza Italia.

Altra voce, sempre in campo oppositivo, s’è levata dalla sinistra. Per dire, dalla bocca di un parlamentare liberouguale, economista ed ex viceministro all’Economia, che quella della dote ai giovani non è mica una idea da esproprio proletario bensì coerentemente iscrivibile nell’area del pensiero liberale solo che, nei tempi correnti, tutto sommato “inefficace”.

Non c’è che dire. La proposta del segretario del Pd Enrico Letta di costituzione di un fondo di sostegno ai giovani diciottenni composto dalla tassazione sulle super-rendite patrimoniali, ha innescato una grande discussione. Segnata, tuttavia, dal corrente costume della polarizzazione delle tifoserie e dalla preoccupazione di leggerla tutta in chiave di manovra politica. Aspetto – sia chiaro – che pure c’è.

Proviamo a raffreddare la polemica e tentiamo di guardare al merito. Cosa propone Letta? Lo ha spiegato, da ultimo, nel suo libro-manifesto (“L’anima e il cacciavite”) e, qualche settimana fa, nel salotto televisivo di Fabio Fazio. L’idea del leader Pd è questa. Attivare una maggiorazione della tassazione (20%) sulla successione dei patrimoni superiori a cinque milioni di euro, per costituire un tesoretto da destinare (con griglia selettiva precisata e calcolato in 2,8 miliardi di euro) ai giovani su tre obiettivi: sostegno agli studi (“perché l’Italia – ha affermato Letta – è il Paese con meno laureati”), sostegno all’acquisto/fitto di una casa (“perché la difficoltà vigente penalizza scelte di crescita ed autonomia dei giovani”), risorse di partenza per consentire iniziative di imprenditorialità. In termini concreti la traduzione degli interventi si tradurrebbe in una dote pro capite di 10.000 euro per una platea di 250.000 beneficiari.

Questa, in sintesi estrema, la proposta-Letta sulla quale il leader dei democratici ha annunciato di non voler arretrare di un centimetro. La sintesi per titoli mette in ombra un pensiero articolato che li ha generati. Sul piano della comunicazione è accaduto anche alla proposta Letta.

Il leader dem ha infatti offerto la cornice e i presupposti del progetto enunciato. Quella “dote” non può – questo il suo ragionamento – prescindere ed essere agganciata ad una complessiva riforma del Fisco ed incrociare una rivisitazione radicale dei percorsi formativi (Letta insiste ripetutamente e con ragione sul potenziamento della formazione tecnico-professionale).

Ancora più alla radice, il segretario dem solleva una questione centrale e vitale: superare le disuguaglianze in una Paese che già prima della pandemia aveva misurato profondi “distanziamenti” nella distribuzione sociale della ricchezza e nell’accesso alle opportunità di lavoro che colpiscono proprio le giovani generazioni. Riflessioni mutuate (compresa la tassa alla super ricchezza in favore dei giovani) dagli studi di Fabrizio Barca, economista, ex ministro e animatore del “Forum sulle Disuguaglianze”.

Non ignora, Letta, che gli obiettivi che indica nella sua proposta difficilmente possono tradursi nella definizione di provvedimenti ad hoc (a meno che non si stia parlando di bonus ed una tantum) ma devono derivare dalla configurazione di un asse di ampie riforme. Non saranno 10mila euro attraverso la tassazione dei più ricchi a reintrodurre giustizia fiscale se non si pone mano per davvero ad una riforma strutturale del Fisco attestato su un criterio di ragionevole proporzionalità che tale sarebbe se allentasse il peso delle imposte su fasce oltremodo da esso gravate (e rese pesanti dalla disuguaglianza che ha corroso confini sociali ritenuti stabili) e arrivando pure a chiedere a chi più ha di dare qualcosa in più.

La questione del Fisco è strategica. I numeri recano con sé un tema di giustizia sociale e perciò stesso si pone come lo strumento di riformulazione di un nuovo patto di cittadinanza. Lealtà e legalità, da questo punto di vista, diventano sinonimi: sleale ed illegale è chi evade le tasse.

E tocchiamo il punto: l’evasione fiscale. Tra le critiche piovute su Letta molte, ragionevolmente muovendosi nel solco delle considerazioni in precedenza esposte, hanno invitato a puntare l’attenzione su questo tema. Con un ragionamento diventato negli anni la cantilena dell’immobilismo e della cattiva coscienza: lotta dura all’evasione fiscale (si calcolano 200 miliardi in fuga dalle casse dell’Erario) così verranno fuori i soldi veri anche per la “dote” lettiana.

Il fatto è che, come si dice, le chiacchiere stanno a zero. Ogni governo ha stentoreamente dichiarato tra le sue priorità la lotta ai furbi. Il risultato è che, purtroppo, i furbi continuano ad esserlo generando pericolosamente il senso comune delle furbizia come virtù. Mellifluo veleno per un Paese che – ricerche alla mano (ultima quella curata da Demos) – sta sempre di più richiudendosi nell’egoismo sociale.

Bene, allora, sarebbe se su questo terreno si cominciasse ad operare. Bene se il governo Draghi iniziasse quantomeno a scoprire le carte evitando di tacitare la turbativa della sortita del segretario Pd con l’altra cantilena sul “tempo di dare (che è quello presente, ndr) e non di prendere”. Ancora meglio se Enrico Letta ponesse sul tavolo il progetto del suo partito per la riforma fiscale, non da ultimo per offrire organicità e coerenza alla proposta della “dote” ai giovani.

E’ questo il tempo di affrontare questi nodi e scioglierli in efficaci e giuste direzioni. E’ questo il tempo perché il Recovery fund non è una dote senza costi. Parte rilevante di quelle risorse sono a debito. Il Paese, cioè, presto o tardi dovrà ripagarle anche riequilibrando lo stellare sforamento del debito pubblico al quale, con tutte le clemenze europee, il bilancio dello Stato è arrivato.

Chi lo pagherà quel debito? Con quale distribuzione del carico fiscale? E, soprattutto, attraverso quale strategia e strumentazione in grado di spingere ad una riconversione delle rendite in investimenti produttivi per il Paese?

L’impressione è che a questi interrogativi vadano, urgentemente e per via politica, date risposte. Tuttavia il tono delle polemiche scatenate dalla iniziativa di Letta, dimostra che la politica non abbia gran voglia di mettere mano alla questione assumendo ad alibi (ma non comprendendone il senso autentico) la filosofia draghiana del “debito buono”. E’ triste, e preoccupante, dover prevedere che nulla di buono per i cittadini verrà fuori da tanta polemica. Perché ad occupare la prima linea del proscenio sarà – come già è in larga parte accaduto – la manovra del posizionamento dei partiti con le proprie bandierine in uno spettacolo sul quale soffia il vento elettorale.

A Letta – sia consentita la blanda cattiveria – gli effetti politici della sua sortita non erano imprevisti. Tagliare la sua idea delle tasse per i giovani con l’angolazione di parole-spot era scelta recondita, forse, ma certamente necessaria per piantare qualche bandierina identitaria provando ad accendere il feeling – anche elettorale – del suo Pd con il mondo dei non rappresentati, degli sfiduciati che gonfiano l’area del non-voto provando a sottrarli alle sirene delle rabbia populista. E’ la politica: guerra di messaggi, occupazione a termine del campo mediatico, che nessun competitor lascia immune.  Il resto si vedrà.

 

 

 

Enrico Letta
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