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La cultura costituzionale resta sempre aperta alla inclusione ed alla “normalizzazione” democratica delle forze della protesta.
La sinistra e la “pedagogia” degli antisistema
Come la “ragion di partito” (da ultimo fatta propria dal recalcitrante segretario Zingaretti) spalancò le porte al grande abbraccio per mandare a casa la Lega salviniana.

di Mariano Ragusa

Nella complicata storia degli ultimi trent’anni della Repubblica, una singolare “attrazione” ha spinto la sinistra, con cultura di governo, verso quelle formazioni politiche definite “antisistema”. E’ accaduto con D’Alema che nel 1995 aprì alla Lega definendola una “costola della sinistra”. Si è ripetuto, meno di un anno fa, con Nicola Zingaretti che ha indicato nel premier Giuseppe Conte un “solido riferimento” anche per il futuro del centrosinistra. Tattica politica e più profonde ragioni culturali si intrecciano nella interpretazione di tale “attrazione”. Ragioni che affondano le radici nella cultura costituzionale aperta alla inclusione ed alla “normalizzazione” democratica delle forze della protesta, perseguita dalla sinistra attraverso una sorta di tensione pedagogico-riabilitativa.

Capita, tuttavia, che l’effetto non si quello sperato. E che nello sforzo di “addomesticare” le forze antisistema il Pd smarrisca il proprio profilo riformista adattandosi ad una condizione di subalternità.

D’Alema e la Lega operaista.

In principio fu D’Alema e il feeling con la Lega della prima ora. Quella Lega “celodurista” e bossiana non era un meteorite abbattutosi sul sistema politico. Ne segnalava e amplificava la crisi presidiando la rappresentanza di un campo che era sociologicamente quello proprio della sinistra.

In una intervista del 1995 al Manifesto, Massimo D’Alema affermò senza equivoci: “La Lega c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale”. E, cogliendo un dato reale, enfatizzò: “Il maggior partito operaio del Nord è la Lega. E’ una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico”.

E’ difficile, con sguardo retrospettivo, ritenere tanta e tale argomentazione come solo finalizzata ad una tattica di alleanza in funzione anti Berlusconi.  D’Alema coglieva il segnale della mutazione antropologico-politica del campo di sinistra sulla quale interrogarsi e agire. Una intesa sarebbe stata utile anche in questa prospettiva di “contaminazione” e di ritorno a casa del popolo diventato leghista e prossimo populista.

La manovra di aggancio, come si sa, non riuscì. Anzi avvenne al contrario. Con un centrosinistra costretto ad inseguire la Lega sul terreno del federalismo e varando quella riforma del Titolo V della Costituzione dalla quale non poco dell’attuale dissesto istituzionale è derivato.

Zingaretti e il futuribile Conte ter.

Trent’anni dopo. Nuovo scenario e stessa pulsione “pedagogico politica” a corroborare la manovra tattica. Destinatario il Movimento 5 Stelle. Nel vicolo cieco del Papeete quando il governo gialloverde, presieduto da Conte, cominciava a scricchiolare, le sirene attrattive del Pd lanciavano richiami ai Grillini illustrando, in favore dei media, i tratti convergenti di una cultura politica di sinistra nascosta sotto la pelle populista (e statalista) del “Vaffa”.

La ragion di partito (da ultimo fatta propria dal recalcitrante segretario Zingaretti) spalancò le porte al grande abbraccio per mandare a casa la Lega salviniana.

Il ragionamento del Pd era più o meno questo. Siamo in pieno terremoto populista e occorre fermare la deriva. Scegliamo il meno peggio, il meno apparentemente eversivo dei populismi sul mercato. E nacque il governo giallorosa con Conte premier bis. Una novità e un grande spazio (questo ancora il ragionamento diffuso tra i dirigenti pd) di contaminazioni di culture politiche propiziatorio della nascita di una nuova soggettività “larga” di centrosinistra.

Proposito perseguito, tant’è che neanche un mese fa l’ex recalcitrante Zingaretti esterna in tv (Dimartedì, su La7): Giuseppe Conte è il “riferimento di un nuovo possibile centrosinistra che secondo me dobbiamo costruire con il protagonismo dei sindaci, da mettere al centro della scena politica”.

Ora quanto questo abbraccio resurrezionale dello spirito sopito di sinistra dei Cinquestelle, sia costato al Pd zingarettiano è facile vedere. Se solo si scorrono le posizioni assunte da M5S su temi strategici e qualificanti è ben evidente come il suo movimentismo istituzionale abbia imposto al Pd rinunce progressive al suo spirito di moderna forza riformista. Risultato: stallo decisionale del governo.

Con la pandemia le cose si sono aggravate. Questioni come il Mes (ma non solo questa) mostrano le pietre di inciampo in un rapporto che il Pd, pur pagando pegno, non rinuncia a mantenere anche nell’aspettativa del possibile assorbimento dei 5Stelle.

Una scelta avvertita oggi ancor di più per le tensioni altissime che nel M5S si sono accese con la sortita di Alessandro Di Battista deciso a mettere in discussione con un congresso l’attuale assetto del gruppo dirigente e parlamentare.

I tempi della resa dei conti non sono forse brevissimi ma certo inevitabili. Scissione in vista tra l’anima movimentista e quella ministeriale del movimento? Difficile prevedere. Certamente una rogna in più per il Pd in chiave di tenuta del governo. Un po’ meno per Conte che nella impraticabilità di alternative all’attuale quadro politico, segue il suo percorso che, con efficacia, Marco Damilano ha tratteggiato come la “innocua vacuità che si fa progetto politico”.

La sirena di Salvini.

E’ in questo quadro che il leader della Lega Matteo Salvini gioca la carta dell’avvelenamento dei pozzi. Nell’intervista di qualche settimana fa a Repubblica, il leader sovranista ha offerto una prospettiva di convergenza con i Cinque Stelle. Non solo a loro, ovviamente per ragioni di melina. Il terreno indicato è l’elezione del Capo dello Stato.

Accordo largo – ha proposto Salvini – con esclusione del Pd. Il piano istituzionale è quello scelto per lanciare una iniziativa che ha due moventi. Da un lato smarcare il leader leghista, in calo nei sondaggi, dalle difficoltà che sta vivendo anche all’interno del suo partito e dall’altro offrire una sponda al plotone dei pentastellati che per ragioni interne e di quadro politico, dovessero preferire svincolarsi tanto da una alleanza organica quanto dalla confluenza nel Pd.

Il discorso è denso di tante variabili e molte ipotesi. Ma la trama del racconto appare ragionevole. Le elezioni regionali di settembre e il referendum anticasta potranno offrire più seri indizi.

Zingaretti-Pd-Twitter
Nicola Zingaretti, segretario del Pd
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