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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Prende sempre maggiore consistenza l’individuazione di nuovi indicatori in grado di monitorare l’affidabilità sociale.
La reputazione? Asset strategico
Il calcolo del rischio derivante da una cattiva immagine personale o aziendale può spingere il sistema delle imprese a rafforzare le necessarie azioni info/comunicazionali per veicolare le buone pratiche ed ottenere l’incremento del patrimonio relazionale unitamente ad un rating bancario più elevato.

di Maria Teresa Cuomo e Ernesto Pappalardo

Quanto vale la reputazione personale? E la reputazione di un imprenditore? E la reputazione di un’azienda? Hanno un valore incalcolabile che incide molto più di quanto si possa pensare sulle capacità relazionali, anche perché le tre tipologie di reputazione – personale, imprenditoriale e aziendale – sono molto intrecciate ed interdipendenti al punto che spesso si confondono. Naturalmente, esistono diversi ambiti all’interno dei quali si manifestano gli effetti di una buona o cattiva reputazione, ma ce ne sono alcuni particolarmente rilevanti dal punto di vista della “capacità operativa” che finisce con il condizionare la qualità della vita delle persone, degli imprenditori e delle aziende. Va chiarito subito, quindi, che la reputazione non è un “asset” secondario – e cioè derivante in maniera automatica da alcune variabili sostanziali (solidità economica, percorsi di crescita, redditività e marginalità delle produzioni, eccetera eccetera) – ma, al contrario, è sempre più un “asset” primario. Al punto che incide prioritariamente sulla valutazione complessiva della persona, dell’imprenditore e dell’azienda. Ovviamente, si tratta di tre tipologie reputazionali che si condizionano a vicenda, ma resta predominante la reputazione della persona che è in grado, quasi sempre, di riflettersi in maniera pervasiva su quella imprenditoriale ed aziendale.

Esiste un versante – ancora non del tutto esplorato – sul quale vale la pena di concentrarsi con attenzione: il rapporto tra reputazione e percezione dell’immagine personale, imprenditoriale ed aziendale che si evince dalla “narrazione” che “viaggia” nei canali dell’informazione giornalistica. Per intenderci: in tutti quei canali dell’info/comunicazione che non sono (o non dovrebbero essere) soggetti a nessun tipo di contrattazione commerciale. Insomma: stiamo parlando non di testi a pagamento o di testi nei quali prendono forma le commistioni più fantasiose tra il messaggio pubblicitario vero e proprio e la descrizione del profilo personale, imprenditoriale o aziendale ( testi che per comodità di linguaggio potremmo definire, più o meno, di vaga ispirazione “agiografico-giornalistica”, ma di articoli giornalistici veri e propri, deontologicamente corretti. In questo caso occorre trovare il giusto equilibrio – nel rispetto dei ruoli (comunicatore da un lato e giornalista dall’altro) – tra le “aspettative” del polo trasmittente (la persona, l’imprenditore, l’azienda) e quelle del polo ricevente (la testata giornalistica). Come? Ricorrendo a forme di news-marketing: il prodotto/notizia (perfettamente rispondente alle regole della notizia vera e non smentibile) assume le caratteristiche di appetibilità e di interesse per il pubblico dei media e, quindi, “merita” di avere spazio perché diventa una notizia di interesse più generale e non soltanto personale, imprenditoriale ed aziendale.

E’ in questo ampio e complesso contesto che si inserisce uno dei “perimetri” all’interno dei quali la reputazione è già da tempo diventato un “asset” con ricadute pratiche e dirette di non poco conto. Se è assiomatico il crescente condizionamento del sistema bancario e finanziario ad opera di specifiche configurazioni di rischio (di credito, di interesse, di controparte, ecc.), che ne assorbono il capitale proprio, altrettanto indubbio risulta il richiamo a puntuali azioni di mitigazione e di monitoraggio. Invero, a causa di una potenziale insolvenza, il cliente che ricorre al finanziamento bancario espone l’istituto ad un rischio di credito, bloccando di fatto una quota di capitale proprio, non utilizzabile per altre operazioni. Da qui la necessità di differenziare le condizioni del credito a seconda della tipologia di rischio/cliente, ma anche di procedere ad una sua segmentazione, non circoscritta al mero rating, basato sulla solvibilità, viziato dall’implicito incameramento di condizioni più vantaggiose per clienti altamente solvibili, in virtù di un assorbimento di capitale proprio più basso e viceversa.

Verosimilmente, una possibile soluzione può individuarsi nella costituzione di ranking in grado di contemplare, accanto a parametri economico-finanziari, anche variabili reputazionali, a tutti gli effetti “anticamera” del rischio operativo e di credito e legate ai primi da una evidente condizione di reciproca interdipendenza.

Il calcolo del “rischio reputazionale”, dunque, unitamente a quello economico, può costituire un ottimo alert  per gli istituti di credito per mettersi al riparo da operatori insolventi, “costringendo” il sistema delle imprese a mantenere una solida reputazione, unitamente ad un rating elevato, per evitare l’innescarsi di un circolo vizioso che, trainando verso il basso performance reputazionali e finanziarie, generi contestualmente un innalzamento del costo di credito, maggiori difficoltà di accesso ed, in sintesi, un inasprimento delle difficoltà aziendali, fino all’estrema conseguenza di una “decomposizione” aziendale. Ma è altrettanto chiaro che la reputazione è già diventato un “indicatore” in grado di agevolare le imprese che riescono a veicolare adeguatamente le buone pratiche adottate che sono alla base di essa

La via obbligata per lo sviluppo, allora non può che passare attraverso l’attivazione di un circolo virtuoso, in cui una buona reputazione apra il passo a performance aziendali positive, spingendo verso condizioni di credito più favorevoli (per tassi ed agilità di accesso), quale strumento di sostegno alla competitività.

E’ evidente che la necessità di mantenere alto un profilo di buona reputazione diventa un asset principale e non secondario per costruire piani strategici di crescita personale, imprenditoriale ed aziendale. Anche perché la buona reputazione agisce in maniera unidirezionale: spinge verso l’alto le aspettative del pubblico o delle varie tipologie di pubblico di riferimento e, quindi, “obbliga” alla maggiore diffusione possibile della ricerca della qualità complessiva delle prestazioni.

Da bene immateriale la buona reputazione è quello che genera più effetti materiali in un tempo molto breve sia per le persone che per gli imprenditori e le imprese.

La sfida è ancora una volta culturale ed ha già innescato dualismi territoriali documentati e monitorabili. Va da sé che un indicatore positivo relativo alla reputazione implica che quella persona, quell’imprenditore e quell’azienda si relazionano in maniera aperta ed inclusiva rispetto al territorio nel quale si muovono. Basta dare uno sguardo alle perfomance delle imprese coesive (recentissimi dati Symbola-Unioncamere) per rendersi conto che alla fine tutto si tiene: buona reputazione vuol dire valore aggiunto per la comunità di riferimento e non solo per la persona, l’imprenditore e l’azienda che ne è titolare.

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