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I numeri dell'economia »

Il rischio è che tra l’annuncio delle risorse e la materiale disponibilità dei destinatari vi sia un intervallo troppo lungo di attesa.
La parola futuro, il virus che inquieta la politica
Nulla delle risorse che il governo sta mettendo in circolo è senza oneri. La manovra è in deficit. E bisognerà rientrare in equilibrio. Come? A spese di chi? E con quali effetti sulle necessità, gli umori e le opinioni del Paese?

di Mariano Ragusa

Stiamo muovendo i primi passi nella Fase 2 e già spuntano – nel mirabolante circuito dell’informazione – scenari su come sarà la Fase 3 e addirittura quella successiva. Simulazioni con il sigillo di autenticità. Quello della task force guidata da Colao che sembra investita del tocco taumaturgico per cambiare tutto quello che va cambiato e che questo Paese non è riuscito mai a fare. Anticipazioni (ne ha scritto una settimana fa Il Messaggero) dei dossier elaborati dal popoloso team di super esperti reclutati dal governo. Nel merito, nulla di sconvolgente se non il dare per certo ed irreversibile che alcune cose praticate nell’emergenza della Fase 1 (lo smart working e la scuola a distanza, tanto per dirne qualcuna) diventeranno pratiche stabilizzate.

Il fattore tempo.

Che significa questo allungare lo sguardo oltre una contingenza che è assai complicata? Significa offrire allo smarrimento delle persone un rituale di rassicurazione, una terapia di sedazione delle ansie. Signori – questo il messaggio – il virus sta battendo in ritirata e noi torniamo alla pienezza della vita, raccontiamo il futuro che non c’è ma è già delineato e con questo ci riprendiamo la capacità di prevedere, controllare e azzerare le incertezze che il virus ha cercato di distruggere. Che poi questa “terapia” serva anche a gettare le basi per un nuovo immaginario collettivo funzionale al mercato, è altra questione ma non disgiunta dalla premessa del nostro discorso. Tutta dentro la premessa è, invece, una riflessione che guarda al momento che stiamo affrontando.

Il futuro è il nucleo essenziale del discorso della politica tant’è che a volere misurare le azioni dei vari attori in campo, il termine “futuro” (e le sua declinazioni) può risultare assai utile per capirci qualcosa e intravedere verso dove stiamo andando.

Il ritmo della super manovra.

Prendiamo la super manovra da 55 miliardi. E’ iscritta nel Decreto denominato “Rilancio”. Quale parole più eloquente di questa per evocare proiezioni rivolte al domani, prospettive mirate, appunto, sul futuro? Manco era stato presentato, e il ponderoso documento è finito nel fuoco di fila delle critiche. Di “rilancio c’è solo la parola: ha sentenziato Sergio Rizzo su Repubblica. “Tanta spesa e pochi investimenti”, il giudizio di Carlo Cottarelli (l’uomo dei conti e della spending rewiev) su “La Stampa” che ha sottolineato come quel decreto si limiti a prevedere “misure difensive per attenuare l’effetto shock economico più che per rilanciare davvero l’economia”. Sabino Cassese, studioso e giudice costituzionale emerito, ha indicato nell’“intento risarcitorio” la chiave di volta della manovra da 55 miliardi. L’obiettivo è “ristabilire un equilibrio rotto – ha spiegato Cassese sul “Corriere della sera” – non dalla pandemia ma dall’azione governativa diretta a tenerla sotto controllo. Il mezzo consiste in elargizioni”.

Si dirà, critiche di professori (e di un “tignoso” giornalista). Provino loro a mettere mano in questa polveriera italiana che rischia di esplodere. E infatti, a stretto giro si è affacciato sulla ribalta mediatica il ministro dell’Economia Gualtieri che ha invitato a guardare il decreto dalla parte di ciò che i critici negano: lo sviluppo.

Il ministro avverte in una intervista a Repubblica: “Assieme alle misure per imprese, famiglie e lavoratori ci sono quelle sulla ricapitalizzazione delle imprese, investimenti massicci sull’efficienza energetica degli uffici e un impegno senza precedenti sull’Università con l’assunzione di 4000 giovani ricercatori”. E chiosa. “Sono investimenti per il futuro”. Rieccola la parola magica che sostanzia il discorso della politica. La rimette nel testo il ministro (inevitabile per ruolo e responsabilità) a fronte della elisione che i critici della manovra ne hanno operato inchiodando il super decreto al solo orizzonte del presente. O meglio: al presente con una proiezione oscura sul futuro.

In effetti – rimanendo ancorati all’esegesi dei discorsi – la politica governante, la maggioranza di centro sinistra, è come sospesa tra un obbligo di stare al presente, costi quel che costi, senza rinunciare alla evocazione del tempo futuro.

Plastico esempio di questa non facile condizione, è stato il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti. In un colloquio con il direttore de “La Stampa”, Massimo Giannini, (pubblicato in contemporanea con l’intervista del ministro dell’Economia e suo compagno di partito), il leader del Pd riconosce: “Lo so, c’è chi critica queste 500 pagine sostenendo che ci sia un po’ di tutto per tutti, che manchino una visione d’insieme dell’Italia che verrà e non ci siano vere e proprie riforme strutturali. Ma nelle condizioni politiche, economiche e sociali in cui ci troviamo, avremmo potuto fare di più e di meglio? Io dico di no. Il massimo possibile di cui c’è bisogno adesso: un sostegno al reddito delle famiglie ed ai ricavi delle imprese”. Quanto al futuro, Zingaretti ne parla per dire “non so cosa ci riserva il futuro ma so per certo che dobbiamo andare avanti”. Per fare cosa? “Intanto per gestire con ordine questa drammatica crisi evitando pericolose derive protestatarie”.

Il silenzio populista.

Eccolo indicato lo spazio in cui si gioca la partita, il terreno sul quale il futuro, nelle dinamiche della politica e della democrazia, diventa contendibile, delineabile, prospettabile. E sul quel terreno di gioco continua ad esserci sopita, apparentemente raffreddata, la rabbia sociale, la paura di larghi strati della società di non farcela, di finire inghiottiti nel fallimento. Corre sotto traccia, questa rabbia, e non sembra non solo non avere parole proprie per esprimersi ma sembra non riconoscersi in quelle che prima del Covid le erano state offerte dalla narrazione populista.

Quella di segno leghista-salviniano è come sospesa, cristallizzata, immobile. In attesa. Salvini prova a marcare la scena ma i toni sono diversi, stemperati. Prima dell’assedio del virus riusciva a imporre la direttrice del racconto pubblico della politica rompendo gli schemi, rilanciando continuamente sui temi. Adesso sembra giocare di rimessa al massimo reiterando bandiere e ricette (flat tax, tra le poche altre) spese un anno fa. Le ragioni sono diverse. Una tuttavia appare prevalente nella sua semplicità. E’ la regola del principio di realtà. Il virus ha seminato panico, e continua a mantenerci in quella situazione da incubo. Abbiamo visto morti. Contagi. Incertezza. Tutto vero. Tutto tangibile e sperimentato. Tutte paure fattuali. E vere. Più vere delle invasioni di migranti o di criminalità di strada scatenata da fermare con la licenza di uccidere.

La voglia incerta di Stato.

Alla rabbia anti-elite ed anti istituzioni, è venuta dai cittadini una domanda istintiva di protezione da parte delle istituzioni. La paura vera ha legittimato lo Stato nella sua realtà immediata di tutore e rassicuratore, durante il picco pandemico, e, adesso, di dispensatore di risorse per ripartire.

Perciò il populismo italiano appare sfocato. Ma ciò non significa che nella società sia maturata una nuova etica delle istituzioni. C’è un clima fragile. La consapevolezza della Statualità è un “sentimento” in bilico nelle convinzioni dei cittadini. E’ come messo sotto esame. In attesa. Così anche il tempo del populismo italiano è solo sospeso. E’ in cerca di futuro. Il centrosinistra prova con questa super manovra a dare qualche credibile risposta ai problemi e a giocare la carta per sventare che il tempo dell’antagonista si sciolga e torni a correre. Che la protesta sia di nuovo forma della politica. Disinnescare la rabbia con la pioggia di liquidità che può “evitare derive protestatarie”, come dice Zingaretti.

La politica governante.

Il tempo della politica governante è questo presente. Se il tempo non sarà breve, se tra l’annuncio delle risorse e la materiale disponibilità dei destinatari vi sarà un intervallo lungo di attesa, quel presente si sgretolerà fatalmente. Ha bisogno, la politica (ora) governante, che la manovra da 55 miliardi riesca ad essere magari “difensiva” e “risarcitoria” e non abbia bisogno di altre correzioni e sterzate. E che funzioni dando alla società la verifica concreta che non tutto è perso.

Sarebbe un buon avamposto per intravederlo almeno il futuro. Percorrerlo non sarà una passeggiata. I critici della super manovra lo hanno accennato quando hanno eccepito l’assenza di misure capaci realmente di riattivare i motori dello sviluppo con investimenti pubblici. Occorrerà non tralasciare le osservazioni. Il rischio è che la super manovra lasci una eredità schiacciante sul futuro. Nulla delle risorse che il governo sta mettendo in circolo è senza oneri. La manovra è in deficit. E bisognerà rientrare in equilibrio. Come? A spese di chi? E con quali effetti sulle necessità, gli umori e le opinioni politiche del Paese? La parola futuro ha bisogno di aggettivi. Il presente non ne offre. Meno che mai può farlo il popoloso esercito delle task force di esperti.

 

 

 

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