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Solo il 10,6% dei nuovi contratti previsti è destinato alle high skill.
La laurea? Non basta
Nella fascia fino a 29 anni, la percentuale più bassa di potenziali neo-assunti si riscontra in provincia di Salerno.

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di Paolo Coccorese ed Ernesto Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano questa triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare. Secondo indizio. Solo il 10,6% di questi contratti avrà come titolari lavoratori che si collocano nella fascia “high skill” e cioè dirigenti, professionisti e tecnici con elevata specializzazione in determinati ambiti aziendali e produttivi. Terzo indizio. Solo l’1,6% di neo-assunti sarà destinato alla direzione di un’azienda. Insomma, meglio non essere né laureati, né tanto meno esperti e competenti di qualcosa. Meglio, molto meglio, avere in tasca “solo” un diploma (44,3% dei contratti previsti) o – addirittura – nessuna formazione specifica (27,9%).
E’ questo il quadro complessivo con il quale confrontarsi prima di mettersi a discutere di modelli formativi, di “incrocio” tra domanda ed offerta di lavoro, o di distanza (o vicinanza) dell’Università e del sistema scolastico al mondo delle imprese. I numeri, come sempre, riassumono ampiamente il racconto dell’emigrazione intellettuale – non solo giovanile – che è diventata elemento strutturale delle dinamiche demografiche in larga parte del Mezzogiorno. Ma la situazione della provincia di Salerno – per essere ben compresa nella sua reale negatività – deve essere confrontata con quanto accade negli altri territori della regione, oltre che a livello nazionale E, quindi, sono ancora i numeri a fornirci la chiave di lettura che può spiegare nitidamente il dramma di più di una generazione e delle famiglie che attonite assistono – e finanziano – questo vero e proprio esodo.
Ultimi anche in Campania.
Se ci concentriamo sull’analisi dei dati Excelsior che riguardano la popolazione giovanile – fino a 29 anni – ci imbattiamo in un altro dato inquietante. Sul totale delle entrate previste – e cioè dei contratti che le imprese dichiarano di volere rendere operativi entro la fine del mese di ottobre – la percentuale più bassa di potenziali neo-assunti si riscontra in provincia di Salerno (27,1%), ben lontana dal 31,9% della Campania e dal 34,2% della media-Italia. Ma anche inferiore al 36% della provincia di Caserta, al 33,1% di quella di Napoli, al 32,4% di Avellino e al 29,4% di Benevento. Stessa musica per le “high skill”, che piazzano il territorio salernitano buon ultimo all’interno della regione con uno striminzito 10,6%, a considerevole distanza dalla media regionale del 16,9% e da quella nazionale del 19,5%, oltre che alle spalle delle province di Napoli (20,6%), Benevento (17,8%), Caserta (16,8%) e Avellino (12,3%).
Il trionfo dei “low skill”.
La controprova di un mercato del lavoro per così dire “al ribasso” arriva da un altro indicatore che, invece, premia abbondantemente la provincia di Salerno, cioè quello che riguarda le cosiddette “low skill”, un segmento che comprende un’ampia gamma di addetti: dai conduttori di impianti e di macchine industriali fino alle professioni non qualificate. In questo caso la percentuale sui contratti previsti nel Salernitano balza al 62,5%, ben al di sopra della media regionale (49,8%) e di quella nazionale (44,4%). Inutile aggiungere che il Salernitano è saldamente al comando di questa graduatoria rispetto alle altre province: Avellino è al 59,1%, Benevento al 50,2%, Napoli al 44,4%, e Caserta al 42,6%.
La “rivincita” dei diplomati.
Se ci soffermiamo sul livello di istruzione richiesto per i contratti programmati in provincia di Salerno, risulta evidente che la ricerca delle aziende si concentra maggiormente sui diplomati (44,3%) oppure su lavoratori che non hanno alcuna formazione specifica (27,9%). Nel primo caso – i diplomati – si tratta di una percentuale più alta non solo rispetto alla media della Campania (40%), ma anche a quella nazionale (38,1%). Tutte le altre province campane seguono Salerno a distanza: nell’ordine, Caserta (39,5%), Napoli (39,1%), Benevento (35,2%) e Avellino (35%). Per gli addetti non qualificati, Salerno esprime in ogni caso una percentuale (27,9%) superiore alla media regionale (24,5%) e nazionale (22,1%), ma in Campania è alle spalle di Avellino (30%) e precede Caserta (25,6%), Benevento (25,3%) e Napoli (21,6%).
Lo scenario.
Di fronte a tale scenario, da anni assistiamo invece ad una stucchevole diatriba/scaricabarile tra le varie componenti che concorrono alla costruzione di un mercato del lavoro in grave crisi. Offerta “sbagliata”? Domanda “asfittica” o, peggio ancora, protesa al “contenimento” dei costi? E’ abbastanza chiaro come tutti gli attori in campo – pubblici, privati, associativi (compresi i poli formativi ed il sistema scolastico nel suo complesso) – siano compartecipi, sebbene con gradazioni diverse di responsabilità, di una situazione ormai in totale stallo. Né è garantito che l’abbattimento del cuneo fiscale in itinere, riservato esclusivamente all’assunzione dei giovani, possa sortire l’effetto auspicato. Esiste senza dubbio una carenza di “dialogo” operativo – anche se finalmente si percepiscono passi in avanti non di poco conto –  tra quanti “strutturano” a vari livelli l’offerta ed il circuito delle imprese. Ma va rimarcato che la conformazione del tessuto delle imprese – nell’intero Mezzogiorno, non solo in provincia di Salerno – presenta due gap difficilmente colmabili nel breve periodo. Il primo è di natura dimensionale e si riflette sulla struttura organizzativa e produttiva (con non poche conseguenze sui processi di innovazione e di digitalizzazione, oltre che di orientamento all’export). Va messo nel conto che aziende piccole o piccolissime tendano a ridurre all’osso l’assorbimento di figure apicali o semi/apicali, le cui funzioni si concentrano anche fisicamente (in larghissima parte) nello stesso titolare dell’impresa. Il secondo gravita sempre nell’orbita della dimensione, ma è più strettamente connesso con la natura familiare dell’azienda, che nel momento dell’acquisizione di competenze specializzate tende ad attribuirle – del tutto legittimamente (ma non di rado con scarso profitto) – a componenti della stessa compagine familiare. In questo modo si comprende bene come la mobilità sociale vada a farsi benedire, soprattutto dove è più forte la presenza di micro e piccole imprese saldamente gestite dal fondatore o dai suoi discendenti.
Il salto dimensionale? Strategico.
Resta centrale, comunque, la necessità di spingere sugli strumenti che consentono il salto dimensionale delle micro e piccole imprese. Aumentare la capacità produttiva e la propensione all’innovazione tecnologica significa ampliare le opportunità di assorbimento di laureati e di personale “high skill”. La ricerca di mercati esteri ne deriverebbe come naturale conseguenza. Ma per raggiungere questi obiettivi occorre anche lavorare prioritariamente sull’irrobustimento del capitale e sul necessario supporto creditizio. In questo caso, l’apertura della compagine societaria va di pari passo con la ricerca di opportunità di finanziamento di tipo extra-bancario (i recenti Pir stanno funzionando più che bene). Ma – come si diceva fino a qualche anno fa – è sostanziale non abbandonare la strada della diffusione di una cultura d’impresa efficace ed aggiornata ai tempi. Ecco perché il ruolo dei corpi intermedi (troppo in fretta ridimensionati nella stagione della “grande”  ed “universale” rottamazione poi fallita) e della rete delle Camere di Commercio rimane di primissimo piano. Come non constatare che il verticalismo decisionale non crea consenso sociale? Come non richiamare l’esigenza di una stagione di dialogo concreto ed operativo, mettendo da parte strumentali contrapposizioni e provando ad archiviare rendite di posizione che non reggono più all’urto della competizione glocale?

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