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di Pasquale Persico
Una visione di politica economica europea per il bene “salute unica” e la necessità di un ruolo delle “comunità aperte pro-attive”. Il rapporto tra sanità pubblica e scelte individuali va profondamente rivisitato, anche in considerazione del tema della “percezione consapevole del prendersi cura di sé e degli altri”. La necessità dell’educazione al buon vivere in comunità aperte è emersa non solo per quanto è accaduto nelle case di cura e negli ospedali, ma, soprattutto, guardando alla asimmetria percettiva e di comportamento dei giovani e delle persone meno giovani. Per i meno giovani, la loro odissea nello spazio domestico si è rivelata un rifugio mentale per raggiungere l’immunità attraverso l’isolamento, in attesa del vaccino salva tutto; le carenze della medicina di comunità separate dall’approccio globale hanno moltiplicato i vecchi e nuovi rischi connessi alla salute, fino allo spaesamento totale sul come prendersi cura di sé. Per i giovani il desiderio di vivere in comunità temporanee larghe è risultato moltiplicato dal potenziale dei social, anch’essi in spaesamento totale; per i giovani la necessità di condividere i consumi dominanti è risultata una necessità, è stato, perciò, naturale oscurare i temi della cura di sé e degli altri per superare la crisi percettiva a cui abbiamo accennato.
Queste problematiche si connettono alla malinconia civile e sociale che molti studiosi attribuiscono all’esplosione delle malattie che non hanno cure scientificamente condivise. Un caso emblematico, per un discorso più ampio, è presentato da Arnaldo Benini sul Sole 24 Ore di domenica scorsa. L’autore ci aggiorna sulle cause ed i rimedi per la demenza precoce e dell’Alzheimer in particolare. Ci offre un quadro ampio sull’indirizzo anarchico delle cure che egli descrive come storia di fallimento della medicina moderna; la cronaca descrive il perché la moltitudine di farmaci prescritti hanno dubbia efficacia ed alimentano solo false speranze per i pazienti, e per i parenti (impazienti).
Oggi, come per tante altre malattie, non solo quelle del cervello, l’antica intuizione che la condizione generale della prevenzione finisce per dipendere, in primo luogo, dalla buona circolazione del sangue e dovrebbe rivoluzionare il tema della visione della cura preventiva dei singoli e delle comunità aperte.
Non si tratta di moltiplicare i controlli specialistici per correggere il pericolo di demenza (perché inefficaci ed inefficienti, cioè costosi), ma ripartire dal prendersi cura di sé e degli altri, perché questo comportamento va a braccetto con la pressione arteriosa ed inquadra la cura preventiva di buona efficacia.
Per il nostro bravo cronista la diagnosi clinica è raccomandata più di quella paraclinica specializzata e lo stile di vita entra in campo come cura da associare alla diagnosi sul modello di urbanità disponibile nel territorio dove si vive e si lavora.
La libertà della cura, allora, deve trovare nuovi punti di riferimento globali e locali. Bisogna uscire dal guscio protettivo delle città così come sono, va rivista la percezione di identità collettiva, intesa solo come accesso a diritti individuali riconosciuti. Non ci si può più sottrarre dalle responsabilità di essere cittadini o cittadini equivalenti, bisogna camminare insieme agli altri. Il mare aperto della complessità, nonostante la fatica di navigare oltre i confini certi, ci fa incontrare le nuove opportunità relazionali delle comunità aperte. La circolazione del sangue è connessa alle libertà vissute nelle comunità aperte, cioè in quelle comunità non arroccate in difesa del loro benessere apparente, illuse dai messaggi paraclinici della medicina dominante.
Nessun vantaggio personale di lungo periodo può essere conquistato se la comunità larga di cui si è componenti soffre di mali che dipendono da una complessità non correttamente percepita o da abitudini obsolete (le abitudini a controlli di prassi, associati al benessere distorto ed individuale spinto).
Alcune multinazionali del farmaco stanno accompagnando, negli ultimi anni, coreani e svedesi nei luoghi della dieta mediterranea per prendersi cura di loro con farmaci sintetici connessi ai principi attivi della dieta mediterranea, esaltando l’ipotesi del poter apprendere dal vivere e nutrirsi come le comunità visitate. In realtà, manca la percezione approfondita del come queste comunità hanno goduto della sussidiarietà orizzontale e verticale delle aree rurali, sempre presenti in quelle comunità che appaiono abbandonate dalla attuale storia nazionale.
In realtà, non ci siamo capiti. La medicina di comunità connessa alla visone globale è un progetto di nuova urbanità e non una fredda ipotesi sui fallimenti del mercato (informazione asimmetrica), illuminati oggi dalle rinascenti teorie sulla distribuzione efficace dei beni di merito.
La sanità pubblica nella società plurale è un rompicapo di grande interesse perché poggiata su l’ipotesi che la cura di sé è connessa al sapersi prendere cura dell’altro, sia egli vicino o lontano. Il concetto di comunità immune non può essere più chiuso nel confine dell’identità tradizionale; paese, città e nazione hanno bisogno di una nuova definizione dove la circolazione delle idee e dei diritti è correlata a comportamenti diversi; il racconto delle cose da fare non è dissimile da quello del saper curare la circolazione arteriosa del proprio corpo, per evitare che la negligenza spazio/tempo che ci avvolge, moltiplichi le cause del nostro sonnambulismo demenziale e precoce.

Pasquale Persico