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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Familismo, “Reti” e “Filiere” che non funzionano

In tempi come questi più o meno tutti si affannano a richiamare l’esigenza di mettere in campo iniziative comuni per “fare sistema”, “fare rete” o, se volete, “creare filiere”. E’ evidente che si attinge ad un concetto tecnico sotto il profilo economico per estendere il ragionamento ad ambiti più complessivi: politici e sociali in primo luogo. Forse, però, è il caso di fare ancora un altro passaggio ed approdare in un perimetro più ristretto: quello eminentemente personale e familiare. Insomma, esiste un problema di approccio culturale che continua a produrre nefaste conseguenze. D’altro canto Banfield con il suo “familismo amorale” era già stato fin troppo chiaro, individuando un postulato che sembra sempre molto ben consolidato da queste parti: “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”. Si scopre l’acqua calda nel sottolineare che questo modus operandi è alla base di una serie di degenerazioni della “visione” politica, istituzionale ed economica tutt’oggi predominante nel Mezzogiorno, ma anche in larghissima parte del Paese. Se uscendo dalla porta di casa, questa forma mentale si imbatte nelle dinamiche produttive corriamo il rischio di ritrovarci in piena economia della “sopravvivenza”, pur vivendo nell’epoca di “glocalizzazione”. Non a caso il salto di scala da piccola o piccolissima impresa a media (non grande, per carità) diventa “problematico” proprio quando si deve fare ricorso a qualsivoglia forma di condivisione. O meglio di cooperazione. Non è che qui si voglia fare “filosofia” a buon mercato, ma la verità è che questo contesto “antropologico” spiega tante cose. Sono fenomeni di “lunga durata”, che permangono nel tempo. Un esempio banale? Le gravi difficoltà di affermazione al Sud dello spirito cooperativistico, che, invece, è sostanziale in tanti modelli di crescita economica e produttiva nel Centro-Nord. Altri riferimenti pratici meno datati? I contratti di rete. Perché stentano a decollare nelle regioni meridionali (ma non solo, per la verità)? Perché non ci si fida l’uno dell’altro. Troppe brutte lezioni sono state subite nel corso della sua storia dal Sud per avere fiducia, per investire nel cosiddetto “capitale sociale”. Di conseguenza l’individualismo economico ed imprenditoriale anche in tempi di crisi non sembra cogliere l’esigenza del sopra richiamato “salto di scala” e spesso si rinchiude in localismi anacronistici. Con buona pace anche dei contratti di rete, che pure giuridicamente delineano una via di crescita abbastanza attenta a non sminuire le varie identità aziendali che decidono di mettersi insieme soltanto in relativi segmenti gestionali ed operativi. Ma è il rapporto tra cosiddetta società civile e politica che sembra, purtroppo, confermare la drammatica attualità della teoria del familismo amorale. L’elenco delle considerazioni che seguono potrebbe tranquillamente derivare da una fotografia scattata questa mattina: nessuno persegue l’interesse comune, salvo quando ne trae un vantaggio proprio; non c’è alcun collegamento tra i principi astratti, politici o ideologici, e il concreto comportamento quotidiano; si trasgredisce la legge ogni qual volta sembra possibile evitarne le conseguenze; il voto è usato per assicurarsi vantaggi materiali di breve termine, più precisamente per ripagare vantaggi già ottenuti, non quelli semplicemente promessi; oppure il voto è usato per punire coloro da cui ci si sente danneggiati nei propri interessi, anche se essi hanno agito per favorire l’interesse pubblico; gli iscritti ai partiti tendono a rivendersi a partiti più favoriti. Insomma, per le filiere e le reti non è solo questione di logiche economiche, ma di piena immersione in un contesto dove predomina l’assenza pressoché totale di “senso civico”: nessuno ha voglia di rendere disponibile il suo “saper fare” correndo il rischio di trasmetterlo ad un altro, sebbene potenziale socio in affari. Non è, quindi, esclusivamente un problema di cicli congiunturali, ma di valori fondanti e di educazione al bene comune, alla crescita collettiva che significa avere ben presente in ogni momento il cosiddetto interesse generale. Forse è il caso di ripartire dai fondamentali, insegnandoli fin dalla scuola dell’infanzia. ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it


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