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Tra contratti a termine, incentivi e spinte all’utilizzazione delle tutele crescenti.
E le politiche “attive” del lavoro? Assenti
Analizzando la legge di bilancio 2018 si evince che, nonostante numerose misure previste per sostenere l’occupazione, mancano ancora interventi sostanziali sull’integrazione dei flussi in entrata ed in uscita.

di Antonio Viviano*

Siamo in prossimità del Natale e come ogni anno iniziamo a fare i conti con la Legge di Bilancio e le numerose misure che caratterizzeranno il 2018. Il tema che ci interessa è sicuramente quello del lavoro: anche l’ormai uscente Governo sente l’esigenza di lasciare il proprio segno per quel che riguarda la legislazione del lavoro. Ritengo che tre siano i punti di maggiore interesse e strettamente interconnessi: riduzione della durata del contratto a termine; aumento dell’indennità economica in caso di licenziamento; bonus occupazionale 2018.

Partiamo dalla riduzione della durata massima dei contratti a termine, 24 mesi anziché 36. L’obiettivo del legislatore è quello di disincentivare l’utilizzo di questa tipologia contrattuale ritenuta la nuova causa della precarietà e soprattutto far si che il contratto a tutele crescenti diventi la forma privilegiata dalle imprese. Ebbene sarebbe assai utile comprendere che la riduzione della durata dei contratti a termine non spinge in alcun modo all’utilizzo della forma a tempo indeterminato perché non la rende per nulla più conveniente. A parere di molti, il primo effetto che si verificherebbe è l’aumento di 1/3 del volume dei lavoratori a termine, in quanto allo scadere del 24esimo mese l’azienda occuperà quella posizione con un altro lavoratore ed il precedente si ritroverà senza lavoro ed a carico dei contribuenti perché percettore di Naspi. Piccola parentesi: riducendosi la durata del contratto si contrarrà anche la durata di percepimento della Naspi, quindi un potenziale nuovo povero. Il secondo effetto prevedibile è quello della riduzione delle stabilizzazioni: una cosa è investire su un lavoratore per 36 mesi e poi, condizioni economiche permettendo, stabilizzarlo; un’altra cosa è stabilizzare dopo 24 mesi considerato anche il navigare delle imprese in una ripresa nebbiosa ed incerta.

Il secondo punto è strettamente collegato al precedente in quanto rende ancor più oneroso per il datore di lavoro effettuare un licenziamento. In primis l’ipotesi di raddoppiare il Ticket licenziamento dagli attuali € 1.500 euro ai 3.000 potenziali non farà sicuramente aumentare i contratti a tutele crescenti. A questo si aggiunga l’ipotesi di innalzare l’indennizzo, in caso di licenziamento illegittimo, dalle attuali 4-24 mensilità a 8-36 mensilità (si consideri che l’Italia è già il Paese con la tutela più alta). È evidente anche ad un lettore inesperto che le aziende spingeranno per i contratti a tempo determinato.  La domanda che sorge è la seguente: il lavoratore italiano deve rinunciare all’idea di un contratto stabile e duraturo? Certo che no!

Occorre che il legislatore, i tecnici ed i burocrati scendano veramente in strada. Debbono fare i conti con la realtà, non chiudersi in freddi uffici ed elaborare misure frutto di sterili calcoli. Per aver un’inversione di marcia occorre una riforma strutturale del costo del lavoro. E come hanno pensato di abbattere il cuneo fiscale? Con l’ennesimo incentivo a termine. Il c.d. Bonus Assunzioni 2018: sgravio contributivo triennale fino a 3.000 euro annui per lavoratore. Bene, un’ulteriore illusione. Prima di tutto la platea dei lavoratori beneficiari dell’incentivo è limitata per il 2018 alla fascia d’età sino ai 35 anni, per poi scendere nel 2019 a 30 anni. L’incentivo presenta un’orribile condizione: il lavoratore non deve aver mai avuto un rapporto a tempo indeterminato né con il datore di lavoro che procede all’assunzione né con altri datori di lavoro.
Risultato? Platea ridotta all’osso ed esclusione della fascia d’età che maggiormente è vittima del precariato ossia gli over 35, coloro i quali dovrebbero rappresentare la classe che produce e che consuma ed invece restano sempre i grandi esclusi.

In conclusione possiamo notare che in questa Legge di Stabilità manca il principale attore del rilancio: le Politiche Attive del Lavoro. Il Jobs Act fonda le radici sul cambio di marcia delle politiche attive. L’Anpal c’è ma è rimasta incapace di gestire attivamente la ricollocazione professionale dei lavoratori. Abbiamo un sistema giuslavoristico che non vuole adeguarsi all’evoluzione delle mansioni e alla nascita di nuove figure professionali; per l’amor del cielo ciò non significa buttare a mare i diritti acquisiti anzi, significa far si che questi vengano applicati anche e soprattutto al “mostro” dell’economia di scala e delle multinazionali ma senza rimanere ingabbiati in un’epoca che non esiste più. Abbiamo la necessità di una visione giovane, non solo anagraficamente, del mondo ed in particolare del mondo del lavoro.

*Studio Viviano&Partners

antonio@vivianoepartners.com

 

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Troppe contraddizioni
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