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GLOCAL di Ernesto Pappalardo »

Sulle tracce di un sogno vissuto da protagonisti involontari, che resterà per sempre.
Da Mexico’70 lungo il filo del mito per ritrovare aria fresca
L’altra sera a guardare la nazionale di Roberto Mancini prendevano forma tanti ricordi. Molto più forte, fisicamente, pronta a vincere, perché ha già convinto tutti. Negli occhi, per un attimo, è tornato il sole di quei pomeriggi degli anni passati.

Nel 1974 la nazionale italiana di calcio arrivò in Germania pronta a cogliere un risultato importante, dopo la magia vissuta in Brasile quattro anni prima. A guardare una delle foto di quel campionato del mondo è davvero difficile immaginare, invece, che si era alla conclusione di un ciclo (bello, sofferto, irripetibile). Lo scatto fotografico precedente la sfida contro l’Argentina – un pareggio – rende bene questa idea di grandezza pronta a concretizzarsi da un momento all’altro. In piedi da sinistra Benetti, Morini, Spinosi, Rivera, Zoff, Riva. Accosciati: Capello, Burgnich, Facchetti (capitano), Anastasi e Sandro Mazzola. Calciatori che, a prescindere dall’avventura tedesca, sarebbero, poi, rimasti nella storia del nostro calcio. Proprio in questa foto è possibile cogliere come la nazionale, con le sue maglie azzurre impeccabili, era lì per rivendicare il senso di un percorso che si affacciava nei Settanta partendo dall’incredibile premessa messa in campo quattro anni prima, proprio contro la Germania.

A guardare tutto questo scenario, con occhi, in qualche modo, sognanti, c’era anche un bambino di 10 anni e mezzo. Un bambino che stava vivendo il passaggio dalla città – piccola, ma sempre “città” – alla periferia, alla campagna che confinava con il centro urbano, una campagna che, in realtà, si apprestava a diventare, nel giro di qualche anno, centro residenziale e, quindi, fortemente “appetibile”, sebbene ancora non pronto a reggere l’urto di una vera e propria invasione. Un’area indeterminata, dove prevaleva ancora il “residuo”, che avremmo anche rimpianto, degli anni Cinquanta e Sessanta. Con il bambino, presto ragazzo, che voleva congiungere da solo il nuovo spazio – la terra, i prati, i sentieri sconosciuti – con il “suo” quartiere, dove aveva iniziato a tirare i primi calci dietro a un pallone di cuoio che rimbalzava forte sulle strade asfaltate e non ancora percorse a tutte le ore dalle automobili. Mettere insieme quei pezzi di città, di periferia di città del principio degli anni Settanta, e la campagna che gravitava ancora intorno, sebbene in progressivo ripiegamento, era un obiettivo che nella mente di quel bambino si poteva raggiungere. Magari camminando a piedi – percorrendo quei pochi chilometri per andare dalla “periferia” nel verde alla città – la domenica mattina presto, mentre in casa gli altri dormivano ancora, e scoprire che, in fondo, non lo aspettava più nessuno. Perché gli altri suoi compagni si erano già organizzati e non avevano più bisogno di quello strano numero dieci che, però, non giocava proprio di sinistro, era “solo” un destro neanche troppo atletico e continuo.

In questo dualismo campagna/città dopo tanti anni rimanevano ancora alcune facce con le quali il bambino numero dieci, a prescindere dal sinistro, aveva continuato a incrociarsi negli anni. Facce che raccontavano, come la sua, il senso di un cammino che era rimasto a metà, senza compiere, in fondo, alcun percorso completo. Immersi oggi nella città – solo un po’ più grande –  ma, in realtà, rimasti con le radici che raccontano ancora quella storia mai compiuta, quell’evoluzione mai completata, quella “contraddizione” che permane in fondo al sorriso di tutti quelli che tifavano Italia e speravano che Riva sfondasse la rete e urlasse a tutto il mondo che il pallone era entrato nella porta dei nostri avversari.

L’altra sera a guardare la nazionale di Roberto Mancini prendevano forma tanti ricordi. Molto più forte, fisicamente, di quell’undici dei Settanta, pronta a vincere, perché ha già convinto tutti. Negli occhi, per un attimo, è tornato il sole di quei pomeriggi in Germania mentre si consumava la fine di un mito che avrebbe preso forma negli anni successivi. E piano emergeva ancora (e sempre) il sogno di Mexico ’70. Un sogno vissuto da protagonisti involontari. Un sogno che resterà per sempre.

Ernesto Pappalardo

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Mazzola e Rivera
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