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Cinema Paradiso. Le recensioni di SalernoEconomy. Il sacrificio del cervo sacro (Yorgos Lanthimos).

di Stefano Grimaldi

Lo schermo nero pece riempie gli occhi, mentre le orecchie vengono squarciate da note potentissime, un cuore pulsante inonda lo schermo in un lento zoom ad indietreggiare. Lanthimos chiarisce fin da subito i suoi intenti: inondare i sensi dello spettatore, provocarlo, accompagnandolo per mano in una discesa agli inferi senza salvezza alcuna. Per quasi un’ora assistiamo alla descrizione di una famiglia perfetta dell’alta borghesia: bellissimi, buoni, di successo. Anche qui però la tensione orrorifica è palpabile, grazie ad un utilizzo delle musiche perfetto ed ai movimenti di macchina sontuosi. Tutto muta, si ribalta, quando, grazie ad un colpo di genio di scrittura, Lanthimos introduce l’innesco fantastico, quello che solleverà il tappeto per mostrarci tutto lo sporco che giace in fondo al pavimento. “Lo vedi, è tutta una metafora” dirà Martin, suggerendo la chiave di lettura dell’opera tutta in un colpo metacinematografico di potenza eccessiva. Nessun è salvo nel mondo del regista: in principio fu “Dogtooth” dove si condannava il protezionismo familiare, poi “Alps” dove la morte e l’elaborazione del lutto erano elemento portante, infine “The Lobster”, i rapporti come costrizione sociale e forzatura nel volerli far funzionare ad ogni costo. Il “Sacrificio del cervo sacro” in questo senso rappresenta la summa della poetica, dove converge tutto lo studio antropologico-nichilista dell’autore. Basta uno stress esterno (per quanto drammatico possa essere) per svelare ogni minimo e recondito dettaglio di un nucleo familiare apparentemente idilliaco e qui, cadono i rapporti, la famiglia, gli uomini. L’egoismo, l’istinto di sopravvivenza ed il marciume prendono il sopravvento venendo a galla. Non c’è classe sociale che tenga. Martin assume quindi un’aurea di risoluzione mistica nel provare a ristabilire gli “equilibri” oltre che farsi corpo di sofferenza per la perdita inaccettata di una persona cara. Il tutto in una confezione formale che da sola basterebbe come esperienza visiva: carrellate in steadycam lunghissime e claustrofobiche che sembrano percorrere i meandri più oscuri dell’uomo più che dei luoghi, l’utilizzo di grandangoli deformanti ed i punti macchina sempre più estremi chiariscono la mutazione alla quale si sta assistendo. Da menzionare la scena delle scale mobili per bellezza estetica e dramma emotivo. Non proviamo a sopravvalutarci o a prenderci troppo sul serio, perché quello che viene mostrato è esattamente ciò che è, senza mezzi termini. Il titolo prende spunto dalla tragedia di Ifigenia, che tanto ha in comune con la parabola di Abramo, ma in entrambe è l’intervento divino a risolvere il dramma, qui, nella vita reale, non c’è nessun Deus ex machina e nella magnifica scena del macabro girotondo il tutto viene palesato. La tragedia ritorna finalmente alle sue origini elleniche grazie a Lanthimos. Il cuore, dicevamo, i sentimenti, l’umanità, viene abbandonato dalla macchina da presa sin da subito in favore degli occhi, il razionale e non è un caso che l’ultima inquadratura sia fissa su di uno sguardo, poi ancora, infine e per sempre … il nero pece.


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