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La “sfida” italiana assume ben altre, più faticose e incerte, connotazioni. I fondi comunitari non sono un maxi bonus.
Bruxelles-Roma, Conte e il rischio delle politiche asimmetriche
“La partita vinta in Europa se consolida la posizione e il ruolo di Conte, non risolve automaticamente le distanze tra l’agognato riformismo del Pd e la piattaforma programmatica (e indifferenziata) dei grillini. Se mai rischia di aprire falle e fratture ulteriori”.

di Mariano Ragusa

Chissà se è stata la reazione al colpo basso assestatogli dal governatore e compagno di partito Vincenzo De Luca che, nel magnificare le performance della Campania nella lotta al Covid 19, ha voluto maliziosamente ricordargli che tra i primi bersagli del virus c’è stato lui. O se abbia voluto riemergere dalla palude che lo assedia e nella quale rischia di sprofondare, con uno scatto di orgoglio e di rivendicazione.

Che sia stata per l’una o per l’altra ragione, due settimane fa il segretario nazionale del Partito democratico Nicola Zingaretti ha dato un segno di vita. Ha colto l’occasione della sua prima uscita pubblica in Sicilia per incoronare il nuovo segretario regionale del partito. E affermare che dall’isola parte il rilancio del Pd: “Se penso al 2018, quando davano il Pd per un partito spacciato, oggi il Partito democratico corre per essere il primo partito italiano, baricentro fondamentale del Governo di questo Paese e che si sta riorganizzando, come qui in Sicilia, per essere la forza garante dello sviluppo”.

E in crescendo ha proclamato: “Questa è una forza politica che negli ultimi anni è stata rimessa in discussione non solo dalle destre, i nostri avversari, ma che ha subito diverse scissioni, alcune delle quali, per stessa ammissione di chi le ha provocate avevano come unico obiettivo quello di distruggere il Pd, oggi possiamo dire che abbiamo vinto noi e hanno perso loro”.

Il Pd e l’avvocato del popolo. 

Dunque, una rivendicata centralità del Pd nello schema di coalizione al quale inevitabilmente s’aggiunge la rafforzata considerazione per il premier Giuseppe Conte tempo fa battezzato, dallo stesso Zingaretti, “riferimento per tutti i progressisti”. Può essere qualcosa di meno di questo, dopo il risultato raccolto dal premier nella trattativa a Bruxelles sul Recovery Fund? L’ottenuto aumento del “tesoretto” non era scontato.

Nella partita a più combinazioni giocata sul tavolo dei 27, il governo italiano è riuscito ad inserirsi sfruttando ogni spiraglio che si apriva. Angela Merkel, in prima linea, e poi il presidente Macron hanno robustamente frenato l’assalto dei cosiddetti Paesi “frugali” mantenendo in piedi, e forse anche rilanciandoli, i fondamenti di coesione e solidarietà della Casa comune europea. Il dato politico indiscutibile è un colpo fermo – al di là dei “frugali” – alle ambizioni sovraniste (con il cotè populista) che avevano scommesso su una Unione depotenziata. Ancorchè rilevante, il risultato raggiunto è solo la premessa di un processo che dovrà concretizzarsi canalizzando con chiarezza di visione, e coerenti riforme a carico degli stati nazionali, la valanga di danaro che arriva da Bruxelles.

La macchina della comunicazione di Palazzo Chigi celebra Conte come l’eroe trionfatore che ha ridato dignità all’Italia. Il podio tuttavia non sarebbe stato raggiunto se i motori-traino europei non avessero ingranato la marcia alta. Ma il nuovo podio è ora rappresentato dal progetto-Paese che con i fondi comunitari si dovrà definire e realizzare. La grancassa mediatica ha tempi contingentati. “Eroi” non lo si rimane per vitalizio.

Tra Roma e Bruxelles. 

Ecco che vista da Roma, e non più da Bruxelles, la partita italiana assume ben altre, più faticose e incerte, connotazioni. I fondi comunitari non sono un maxi bonus. E se la governance della spesa appare alleggerita dalle odiose “condizionalità” che avevano rianimato i fantasmi di Troike e ingerenti controllori, è pur vero che larga parte di prestiti si tratta. E che se i tassi di interesse sono morbidi e ampiamente dilazionati, è pur vero che vi si dovrà far fronte, per restituirli, generando risorse in grado di rimettere in moto un Paese con i tassi di crescita tra i più bassi nell’area euro.

Segnali significativi in questa direzione non ne sono venuti, sino ad oggi, dal governo guidato dal neo-eroe Conte.

Toppe e rattoppi per prolungare risposte contingenti alla crisi che morde senza accennare a come se ne uscirà. Per ora si veleggia sul debito a go-go: 155 miliardi di euro è lo scostamento di bilancio. E una impennata del deficit che non rientrerà a soglie accettabili neanche sul lungo periodo come segnalano i più credibili osservatori. A differenza – sia detto e non per inciso – di quanto accadrà per altri Paesi dell’area euro.

Almeno un po’ di verità. 

E allora, non sarebbe il caso di avviare una qualche operazione verità? Non sarebbe il caso di dire al Paese che il costo dell’emergenza e degli investimenti di rilancio, dovremo pagarlo? E chi lo pagherà, quali categorie sociali e produttive? E attraverso quale orientamento della leva fiscale? Con quali garanzie che le risorse per turare le falle e far muovere il Paese vengano non da una declamata ma vera e stringente guerra all’evasione?

Niente di tutto questo. Si è preferito derubricare, attenuare, contenere, dissimulare, ammorbidire. Va a capire cosa può innescare la verità. Va a capire se in nome dell’onestà intellettuale e della serietà richiesta a al governo, non abbia quest’ultimo a subirne gli effetti con un terremoto politico. E con una crisi che nessuno, ma proprio nessuno (al di là delle minacciose dichiarazioni) vuole davvero.

Ma il Paese che non crede al suo futuro (vedi l’allarmante tasso di denatalità) o vi intravede solo il nero della disoccupazione annunciata (la scadenza del blocco dei licenziamenti), non può affidarsi alla stabilità inerziale del suo governo e della cacofonica maggioranza che lo sostiene.

Le manovre sullo scacchiere. 

Serve al contrario un governo forte nella visione di prospettiva e nella sua legittimazione. Capace di animare una nuova stagione dei doveri necessaria alla ricostruzione da affrontare. E’ ciò che, invece, manca.

Non è casuale che proprio a ridosso delle trattative sul Recovery Fund e in presenza di reiterati colpi a vuoto dei provvedimenti emergenziali varati dall’esecutivo, si sono infittite le voci di crisi del governo. Per varie ragioni, la gran parte riflesso di scontri interni soprattutto ai Cinque stelle.

E non è un caso se più di un pontiere si è messo all’opera per provare ad ampliare la maggioranza. Tra i più autorevoli l’ex presidente Romano Prodi che ha fatto cadere il tabù anti-Berlusconi ritenendo tutt’altro che “scandalosa” l’ipotesi di imbarcare in maggioranza il Cavaliere e la sua Forza Italia. L’apertura è stata fatta. L’opzione è sul tavolo. Anche se resta da comprendere quanto sia studiato tatticismo, per provare a disarticolare il campo dell’opposizione di centrodestra, e quanto una manovra di sponda per addomesticare i fibrillanti partner cinquestellati.

Vero è che dalle parti del centrodestra non tutto è rose e fiori. Sondaggi (favorevoli) a parte, emergono questioni politiche non di poco peso. Una in particolare riguarda la Lega. Polo egemone dell’opposizione, ha adesso qualche motivo di riflessione per calibrare la sua linea. L’esito delle trattative europee e il fatto che gli alleati sovranisti siano stati i nemici scoperti del partito di Salvini ha indebolito non poco la narrazione dei lumbard.

Vero è anche che la partita vinta in Europa se consolida la posizione e il ruolo di Conte, non risolve automaticamente le distanze tra l’agognato riformismo del Pd e la piattaforma programmatica “indifferenziata” dei grillini. Se mai rischia di aprire falle e fratture ulteriori. L’urgenza dei tempi e delle scelte per il rilancio del Paese, obbligano il Pd a rendere efficace e con decisione il profilo riformista svanito nella subalternità ai Cinque stelle, in nome di una governabilità purchessia. Partita nel perimetro del governo tutta da giocare e con una variabile assolutamente nuova: il ruolo rafforzato (anche nei sondaggi) di un premier assai più libero nella manovra tra i partner di coalizione. Il che sarà motivo di perturbazioni.

Il corto circuito. 

Ecco che, con tutte queste variabili in campo, l’immagine nitida del successo di Bruxelles messa davanti allo specchio della situazione politica interna, si scompone nel mosaico delle incertezze. Stretta in un evidente e rischioso corto circuito.

Da una lato la necessità di scelte rigorose ed epocali per il futuro e dall’altro l’operazione salvataggio di un governo e di una intesa ossimorica tra populisti stellati e Democratici in crisi di astinenza riformista. Il piccolo cabotaggio e la grande storia da costruire. Il nodo non lo scioglie un eroe mediatico-politico. E meno che mai la retorica dell’Italia che ce la farà comunque perché farcela è nel suo istinto fondativo. Perché è l’Italia metà fortuna e metà dovere. Sentiment consolatorio. Ma non per sventare il declino.

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